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Un giorno i Muse esploderanno. Continuano a gonfiare e gonfiare a dismisura, almeno da quando, accusati di essere le copie dei Radiohead, decisero di infilare una pompa in un’entrata del loro mixer…cosicché, se il loro sound non fosse cresciuto, perlomeno si sarebbe gonfiato. E così è stato: da “Origyn of Simmetry” in poi i Muse sono levitati come un’Areostato da Gran Parata, abbastanza farcito di coriandoli e mascheroni da continuare volare a bassa quota. Pensavamo che il punto di non ritorno fossero le liriche minacciose e magniloquenti dell’apocalittico ‘Absolution’ e che, dopo la fine del mondo, i tre inglesi si sarebbero chinati a raccogliere i cocci. E invece no. Ancora non eravamo stati illuminati dalle Rivelazioni di questi cosmici Buchi Neri. E dovreste sentire che roba! Cavalcate spaziali a ritmo di grancassa, organi siderali “tastati” da Darth Fener in persona… roba da far eccitare Gorge Lucas e tutta la brufolosa Armata delle Spade Laser. Se va avanti in questo modo succederà: forse, nelle sale di Buckingham Palace durante le registrazioni del nuovo disco o forse già durante il prossimo tour in collaborazione con Riccardo Muti. Ma succederà! Il pavimento deflagrerà sotto i loro piedi, loro salteranno in aria e dalla boccuccia di Matt Bellamy, ancora impegnata in un acuto, usciranno loro: le braccia muscolose e i baffetti ermafroditi più famosi del rock. E’ terribilmente chiaro, a questo punto: He wants to break free!
Emanuele Binelli
Una cosa è certa: Matthew Bellamy ha proprio deciso di smettere di sbrindellarci i cosiddetti con quegli inutili virtuosismi vocali e barocchismi alla Farinelli che costellavano i lavori di esordio della band. Così i tre del Devonshire ci restituiscono l’immagine di un gruppo più personale e compatto, stilisticamente maturo che usa tutti i suoi strumenti come strumenti, appunto, e non come fini.
Ci restituiscono l’immagine che era già balenata davanti ai nostri occhi all’altezza del mai troppo lodato Absolution, ma che poteva restare così, come un lampo a ciel sereno, appunto, come un episodio a se stante nell’ambito di una carriera musicale comunque folgorante. Ecco tutto.
E invece no, invece i Muse sono qui a dirci che, ci piaccia o no, quelli che abbiamo visto e che abbiamo apprezzato (o criticato) nell’album precedente ormai sono loro, e che così resteranno, con buona pace dei fan della prima ora.
Le novità di questo platter sono principalmente due: una su tutte le maggiori incuriosioni nel territorio dell’elettronica, che già comunque comparivano nel precedente Absolution come derive progressìve, ma che qui sfociano in diversi episodi proprio sul terreno della dancefloor, e lo fanno con coraggio gusto e personalità, come avviene per l’acidissimo singolo Supermassive, o ancora vanno a profanare il mondo dell’elettropop con un sorrisetto scaltro, come nella godibilissima Starlight, che non è altro se non una title track con un titolo diverso (beh!), e che sembra uscita dal carnet dei New Order più ballabili e malinconicamente pop. Ma le derive scarrocciano anche un po’ più in là, e gioiosamente, fino all’ebm (!!) più orecchiabile (niente di estremo, per carità) di un brano come Map Of The Problematique, dopo la cui intro ti aspetteresti il vocione dei VNV Nation, e non Matthew. Ma Matthew ci sta tutto, e stupisce.
Quindi l’Apocalisse non è arrivata, o meglio, ne sono successe di cose, ma l’apocalisse, quella no, così, che cosa fare? Andiamo a ballare.
La seconda novità di questo ricchissimo piatto sta nel recupero di alcune soluzioni al limite del kitsch d’annata, dai Queen (di cui abbondano citazioni soprattutto nel settore controcori), come per Soldier’s Poem, fino a certe tentazioni music-hall d’anteguerra come avviene nei sorprendenti inserti vocali di Assassin (ppà-ppà-ppà-ppà-ppà-ppà-ppàppa!). Il bello è che il limite tra il gusto ed il ridicolo non viene mai superato, anzi i Muse sembrano ballarci sopra e divertirsi a stuzzicare i nostri neuroni, e forse a renderci meno ottusi. E anche la cavalcata power-glam (?!) di Knights Of Cydonia che chiude il lavoro alla fine risulta piacevole, sebbene sembra voglia fare di tutto per passare il segno.
Resta, una certa attitudine prog nella strutturazione dei pezzi, che concede aria, cambi di tempo, variazioni sul tema inversioni e stacchi, l’engagement apocalittico-esistenziale (e il testo di Take A Bow contiente un anatema contro bush che nemmeno nunzio d’erme), restano le ballate straziacuore dove Matthew ha imparato a tenere la voce a bada sui registri bassi senza strafare (anche se potrebbe, ed è questo il bello), resta l’epicità strabordante. Resta la scaltrissima produzione di Rich Costey che oltre all’ovvia ineccepibilità tecnica ripete la gloriosa impresa del precedente album, riuscendo a dare personalità a secchiate alla band senza però risultare invadente, questa volta aggiungendo agli ingredienti già conosciuti un litro o due di acido, che in certi brani diventa addirittura un godimento puro (la chitarra solista di Invincibile o il centro di City of Delusion). Anche lui, parte della band a tutti gli effetti ormai, e santo subito. Cercate di avere questo disco.