Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: |
Sulle prime affiora una certa delusione. Sarà forse perché il sottoscritto ripone infinite speranze nei confronti di qualsivoglia uscita del caro Damon in nome di quella che più di una semplice passione mi azzardo a definire empatia musicale, ma è impossibile non rilevare una sensibile normalizzazione del suono del ragazzo disegnato male. Una gestazione travagliata con tanto di canzoni cestinate perché istintivamente ritenute non idonee al mood del quinto lavoro del nostro e tanto lavoro in studio“ sprecato” (e primo vero e proprio disco major, celebrato nell’ironico ma a tratti inascoltabile musical-rock di “Welcome to the Overground”). La svolta della cosiddetta maturità, forse; tanto pianoforte, chitarre pacate e sottili, tutto molto in ordine in un sottile avvicendarsi di chiaroscuri. Poco spazio per i voli pindarici, il rincorrersi di strumenti giocattolo, archi e fiati: è l’ora della riflessione amara più che della melanconia ubriaca. E’ il tono medio che ci frega e ci impedisce di apprezzare in prima battuta il buon gusto e la raffinatezza dell’insieme, l’equilibrio e la mano ferma in cabina di regia che ne fanno oramai un signore del pop degno di guardare negli occhi un Costello o un Randy Newman senza tremare. E una ballata come “Nothing’s gonna change your mind” la si scrive una volta nella vita, tra cambi di tempo, di tono, di timbri, e di “Promises” Elton John non ne scrive da trent’anni, ci potremmo giurare. Il titolo dell’opera è da intendersi come un palese omaggio al noto amore di Gough per papà Springsteen e se vogliamo la title track ha il piglio fiero e nobile di una “Thunder Road”, ma l’interpretazione fiacca ne smorza ahimè paurosamente il tiro. “Degrees of Separation” e “A journey from A to B” sono due morbidi passi di danza in punta di piedi, si fanno apprezzare per le armonie e l’impasto di corde e ritmi, si assaggiano con piacere ma non saziano; altrove va ancora peggio dato che la bossanova di “The Long Way Round” si dimostra il più banale pezzo mai scritto dal nostro visto e sentito chissà quante volte (né loderemmo troppo la scolastica ambientazione folk di “The Time Of Times”). Ci pensano “Without a Kiss” (torch song da confessionale, assorta e contrita, un bellissimo giro di piano su un impercettibile sfondo di flauto e congas… struggente apice dell’album), la brillantina rosa funky di “Walk you home tonight” e la dichiarazione d’amore eterno di “One Last Dance” a ricondurre la valutazione del disco sopra la soglia della sufficienza. Qualcosa è andato perduto in lui o forse in noi; l’innocenza, la sorpresa, o forse semplicemente la spontaneità di un ego difficile da incanalare in un percorso precostituito e che forse per la prima volta nella sua carriera ha davvero PENSATO un disco prima di comporlo. Non si tratta certo di una bocciatura secca, ci sono canzoni meravigliose e non poche tracce di talento cristallino ma anche preoccupanti segnali di rallentamento, di pacificazione. Mentre attendevo con ansia emozioni per poveri illusi, in questo episodio c’è davvero poco spazio per la beata ingenuità.