Modena City Ramblers – Dopo Un Lungo Inverno

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Il titolo dice già molto sul periodo (inteso dal punto di vista pubblico e privato) trascorso dal gruppo, qui alla nona prova sulla lunga distanza e per la prima volta dopo tredici anni priva del proprio cantante Cisco, che ha deciso di abbandonare la band per abbracciare l’avvenura solista. Una intestazione che vuole prima di tutto sottolineare la tanto sospirata fine di cinque anni di abbrutimento fisico e morale di una paese consegnatosi senza quasi opporre resistenza nelle mani del più nefasto esecutivo che i futuri annali potranno mai documentare, ma anche le traversie oltrepassate a seguito dell’abbandono del proprio frontman. Occorre ammettere che i segnali di un possibile split erano nell’aria da diverso tempo e quantomeno le ultime tre uscite del sodalizio emiliano mostravano pericolosamente la corda quanto ad ispirazione nella scrittura. Sinceramente non sono mai stato tra i sostenitori di Mr.Bellotti, del quale non ho mai riverito le tonalità più “epiche” e stentoree che a mio parere spesso limitavano più che accrescere le potenzialità dei Modena ed ero davvero curioso di scoprire cosa avrebbero tirato fuori dal cilindro D’Aniello e soci per mezzo della nuova coppia al microfono, Dudu Morandi e Betty Vezzani, e l’impressione è che i presupposti per una brillante ripartenza vi siano tutti; il primo canta infatti con un tono leggermente rauco,viscerale e ben poco addomesticato, che specie nei pezzi più aggressivi e festosi conferisce un aura “punk” che tra whistles e bouzouki davvero non guasta, mentre la seconda è una sottile e candida voce folk nostrana, eterea ma non esangue, decisamente “popolare”. Se poi si da inizio alla danze con l’irish-punk killer di “Quel giorno a primavera”, una delle canzoni più veloci e dirette mai scritte dai nostri e vera e propria celebrazione di quell’a dir poco travagliata notte del 10 Aprile, i pollici non possono che drizzarsi per la gioia, così come all’ascolto della serenata macedone di “Western Union”, saudade balcanica impreziosita dalla sempreverde Kocani Orkestar, il combat-folk di “Mia Dolce Rivoluzionaria” e “Mala Sirena”, dolce ballata dedicata all’assedio e alla rinascita della città bosniaca di Tuzla, oggetto di una delle più orrende stragi del conflitto che ha insanguinato quelle terre negli anni novanta. I difetti del disco sono prima di tutto l’eccessiva lunghezza (quasi settanta minuti) che evidenzia maggiormente certe lacune nella scrittura che i Modena hanno sempre in qualche modo palesato e rende quindi la fruizione del disco non così appetibile come si potrebbe pensare, anche a causa di quattro/cinque pezzi decisamente non riusciti (citerei l’elementare “Tota la sira”, la secche tribaleggianti di “Mama Africa”),oltre a una certa ripetitività nella struttura dei pezzi. Assolutamente rimarchevoli gli arrangiamenti e non soltanto per l’ampiezza della strumentazione a disposizione dei nostri (che spesso in altre mani da vita a veri e propri pasticci….) ma per il perfetto bilanciamento degli impasti tra corde, fiati, percussioni e l’armamentario più prettamente rock, senza che il primo abbia a forza la meglio sul secondo, grazie anche alla sapiente mano del “decano” Peter Walsh in cabina di regia. L’impressione è dunque quella di una band tornata finalmente in forma e con qualche freccia in più al proprio arco, con tutti i limiti che a nostro parere ha sempre avuto, ma anche con una rinnovata freschezza e l’indomita volontà di COMUNICARE e far riflettere ancora a lungo.