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Quel che viene in mente, da subito, ascoltando quello che fu l’ultimo LP in studio degli Alice In Chains, è il concetto di potenza. Ma sia chiaro, una potenza non legata all’impatto dei brani e alla produzione, alla velocità e alla ritmicità del disco, bensì una potenza diffusa, spalmata, che avanza lenta come lava sui corpi e sulle coscienze degli uditori.
Smaltita ormai del tutto l’infatuazione per gli anni ottanta e per l’impatto di matrice metal, rilasciata l’ultima orgia di cattiveria marcatamente muscolare (‘Dirt’), la band si dedica ad un lavoro panico e definitivo. Niente più tempi sostenuti o pezzi old school, ‘Alice In Chains’ – che viene naturale definire un self-titled dal valore meta-rappresentativo, in senso compiuto – è fatto di mid-tempos sontuosi che regolano il metronomo sotto la soglia del pogo (eccezion fatta per la meteora So Close) per secernere una lista di dannazioni assolutamente mai redente. Feedback oblunghi, distorsioni compresse e morbose al limite delle atmosfere industrial, manti di chitarre essenziali e circolari; ‘Jar Of Flies’, ‘Dirt’, ‘Sap’, ‘Facelift’ essiccati al pari della carne e poi sbriciolati.
C’è tutto quello che poteva esserci e qualcosa in più: l’apertura straziante di Grind (la sua alternanza perfetta di pacato headbanging e squarci melodici), l’equilibrio acustico-elettrico di Heaven Beside You, la malattia di Head Creeps, la coda brillante/satinata di Shame In You, i toni alterati di Brush Away, Sludge Factory (con coda lisergico-infernale) e Nothin’ Song, le frustrazioni sonore e tematiche di Again e God Am, e poi il mantra perso di Frogs e l’illusionismo di Over Now, con la sua finta pacificazione a celare la reale Fine. Il track-by-track è necessario a chiarire le ricche sfaccettature di questa opera ancora comunicativa e misteriosa, se non attuale. Certamente personale come poche: grunge? post-grunge? doomed hard-rock? junk rock? Oltre le pose e le etichette associabili a questa band, resta la sostanza indimenticabile di un momento importante e caratteristico degli anni novanta, un tassello di musica che riuscì a uscire dal gregge artificiale costruitole attorno per rilasciare un monumentale canto del cigno.
Se il grunge sia mia esistito come genere è difficile a dirsi (la propensione è nettamente per il no), ma in forma di movimento ha senz’altro vissuto, e volendo rintracciare una costante che leghi indissolubilmente i vari gruppi inseriti in esso, l’elemento comune più evidente – accanto al proverbiale e pretestuoso nichilismo – è l’indiscutibile grandezza dei suoi cantanti: Cobain, Lanegan, Cornell, Vedder, Arm… e Staley.
Layne Staley è stata una delle voci più estreme e carismatiche del grunge, perfettamente integrata da Jerry Cantrell in modo tale da creare quell’atmosfera assurdamente tesa e improvvisamente dimessa, rilassata nel paradosso della sua psicosi. In ‘A.I.C.’ Layne è completamente smarrito, la sua voce dolente ma lontana, echeggiante, filtrata… la rabbia è smorzata a favore di un intercalare mesto, autentico, che risulta topico all’interno della sua carriera (simili interpretazioni sono presenti solo in ‘Above’ dei Mad Season e poco altro). ‘Alice In Chains’ è contemporaneamente uno strumento per conoscere l’identità profonda della band e un apice all’interno della discografia di genere. Un disco che, come nel caso di ‘Down On The Upside’ e ‘In Utero’, chiude una storia con il capitolo più prezioso e, ancora una volta, trascurato.