Scritta a quattro mani con Riccardo Zamboni.
questo live report è una discussione, uno scambio d'opinioni tra due persone che hanno visto la stessa band in concerto nell'arco di 24 ore.
Daniele Guasco: Allora, piaciuti gli Uncode Duello ieri sera? Qua a Genova sono stati abbastanza entusiasmanti. Hanno iniziato il concerto di colpo, come vere e proprie furie, nei primi dieci minuti ci hanno scaraventato addosso un muro di suoni incredibile, quasi stordente. Anche se le canzoni più potenti sono quelle più simili al disco devo dire che dal vivo riescono a rimediare la loro ottima figura.
Riccardo Zamboni: Sì, anche in quel del Bloom, nelle fredde lande meneghine, hanno iniziato col botto. Dopo una pausa catatonica che li ha separati dal primo gruppo si sono presentati tirati e asciutti, belli fragorosi. Una sorta di doccia bollente/gelida alla turca…
D.G.: Beh, del resto iniziando il concerto con quei brani riescono a concentrare anche l'attenzione di quella parte di pubblico che magari non conosce i brani o comunque la musica degli Uncode Duello. Anche le parti dell'esibizione più riflessive comunque hanno un gran fascino, particolarmente per come sfruttano la moltitudine di strumenti strambi che si portano dietro.
R.Z.: Dici bene. Iniziare con quelle scariche proto-heavy sfrangiate e poi pettinate con del gel frantumante ha la sua valenza, anche solo di richiamo nei confronti dell’uditorio. Infatti un’attenzione gelida, quasi intimorita si è insinuata immediatamente fra il pubblico, peraltro non numeroso né più di tanto scalpitante. A conti fatti credo che l’autismo della loro proposta, travestita da rock vitale, si sia rivelato – e riversato – subdolamente agli ascoltatori. Un meccanismo che funziona e non scade nella farsa solo in seguito a una significativa esperienza nel settore. Ho apprezzato particolarmente anche il loro set-up: chitarre essenziali, di grande identità timbrica, seppur coperte da catene di effetti sempre in rilievo. Secondo te come si potrebbe identificare il loro approccio al concetto di rock?
D.G.: Dopo averli sentiti dal vivo inquadro sempre più il loro rock come un rabbioso urlo verso le barriere, una ricerca quasi impercettibile ma sicuramente di successo di riprendere in mano i dogmi che si sono creati negli anni per condirli di personalità. Le loro strutture melodiche sono semplici, è il modo in cui vengono proposte che le rende parecchio uniche. Alla fine penso che anche quando iniziano a portare all'eccesso gli strumenti, quando arrivano a momenti più calmi dimostrino comunque come questo approccio riesca ad andare ben oltre le semplici schitarrate violente, diventando quindi utile in diversi paesaggi sonori. Anche a Genova eravamo pochi, ma quei pochi erano praticamente tutti affascinati da quello che succedeva sul palco. Almeno per me in certi momenti sembrava di essere un assetato nel deserto davanti a un'oasi. La loro forza durante il concerto è stata la capacità di stupirmi e di farmi chiedere continuamente cosa avrebbero fatto dopo, come seguendo un film. Non so se anche te hai avuto questa sensazione.
R.Z.: Più che un’integrazione di personalità basata sull’ascolto, e quindi sul tipico impianto impro-rock dei nostri giorni, mi sembra un’integrazione di persone. Il vederli lì, muti, a modo loro coinvolti ma rilassati, a proprio agio, mi ha trasmesso l’impressione di assistere a un’intervista – specie nelle parentesi astratte – o ad un colloquio cogitabondo in cui gli interlocutori sul palco diffondevano i loro pensieri anche nel momento in cui stavano ascoltando le risposte altrui. Il gioco della trasparenza, e questo è ingigantito dalle ampie parentesi di musica concreta, che viene preferita a cazzeggi elettronici altrimenti tediosi. E inutili. C’è quasi sempre una preferenza per l’aggressione anziché per l’accoglienza, ma un’aggressione comunque comunicativa, non per forza assoluta. Un’aggressione che mi pare voglia restare intelligibile e umana. Tu hai trovato più compassione o chirurgia nella loro performance?
D.G.: Più che una compassione ho trovato una vera e propria simbiosi dei musicisti coi loro strumenti, parlerei più di empatia. La chirurgia invece è palese, senza esagerare gli strumenti sono sfruttati totalmente. Sono d'accordo con te sull'umanità trasmessa dai musicisti sul palco, durante il concerto di Genova ho percepito quasi una forma di soggezione alla loro musica. Una cosa che mi è piaciuta molto è stata l'unitarietà del concerto, l'ho sentito come un percorso, simile a quello che può essere un album. Anche la secchezza con cui hanno concluso l'esibizione, di colpo, improvvisa, quasi nervosa. Finchè non li ho visto seduti dietro al banchetto del merchandise ho continuato a sperare di rivederli salire sul palco.
R.Z.: Capisco… Dicevo “compassione” perché ritengo preziosa l’attenzione che rivolgono – implicitamente – al fruitore dei loro prodotti: ho avvertito una sorta di cura per la comprensibilità emotiva della propria proposta che li distingue dallo snobismo ermetico tipico della scena in questione. Anche da queste parti il tutto si è concluso con un’ideale schiocco di dita dal nulla. E questa laconicità di fondo – nonostante avessi anch’io un po’ di rammarico per il termine dell’esperienza – è un valore aggiunto per quanto riguarda l’efficacia del progetto. Non sarebbe bello andarsene un po’ più spesso con il desiderio di qualche nota in più invece che con lo sbadiglio soffocato nella mascella impastata di birra? Ok, non si sono rotti la schiena, ma hanno (s)premuto le meningi e forse anche qualcos’altro…
D.G.: Perfettamente d’accordo, come diceva Cary Grant: “E' meglio andarsene un minuto prima lasciando le persone con la voglia, che andarsene un minuto dopo avendole annoiate”. Gli Uncode Duello mi han lasciato il ricordo di un'ottima ora di musica, ma anche una voglia incredibile di scoprire quali saranno le loro prossime evoluzioni.
R.Z.: E così nostri ritrovarono, affamati eppure sazi, la strada di casa. “Vagammo come immersi in un sogno frenetico […] Non c’era niente di stabile; le strade erano vive tutta la notte” (Jack Kerouac).
Foto a cura di Anna Positano:
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