Solefald – Black for Death

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Passa un anno, e come promesso arriva la seconda parte dell’Odissea Islandese raccontata con la solita mirabile attitudine tipica dei Solefald. Proprio un anno fa parlavo della prima metà dell’opera, a nome ‘Red for Fire’, con toni invero entusiastici e altisonanti, auspicando una seconda metà all’altezza. Aspettativa soddisfatta? Direi di sì, con un paio di riserve.
Parliamone più approfonditamente.
I Solefald hanno sperimentato in tantissime direzioni, probabilmente più di qualsiasi formazione post-black metal norvegese (e non), finchè un bel giorno hanno deciso di fare una puntatina in quelle che sono le loro origini – musicali e culturali – nordiche, dedicandosi ad questo progetto dal sound decisamente più “metal-tradizionale”, ovviamente rielaborato con gran classe. Mentre ‘Red for Fire’ manteneva un livello medio piuttosto alto, questo ‘Black for Death’ presenta un andamento più irregolare, con pezzi perfetti in ogni minima sfumatura alternati ad episodi meno riusciti e un po’ sfocati. Ad esempio: l’opener è di una bellezza disarmante, finisce di diritto tra le loro cinque canzoni più belle, condensando in meno di quattro minuti tutto il meglio di un certo black metal sinfonico ed epico, poi però dopo le buone intuizioni di “Queen in the Bay of Smoke” si inciampa sulla insensata “Silver Dwarf” che – per carità – è piuttosto originale e interessante come tentativo di destrutturazione delle ritmiche metal tramite stratificazione di riff semplici e immediati, ma non morde quanto dovrebbe. Dopo il divertissment lounge-jazzato di “Underworld” passiamo a quella che, insieme alla prima traccia e alla toccante “Allfathers” risulta essere il vero picco dell’album: “Necrodyssey”. Eh, già dal titolo si capisce che i Solefald hanno compiuto la quasi impossibile impresa di andare oltre pur tornando alle proprie radici, mettendo insieme in altri quattro minuti scarsi un perfetto anthem alla Manowar, richiamando nelle ritmiche il lavoro degli Sturmgeist (loro progetto parallelo-alcolico), con delle linee vocali di grandissimo impatto, tra lo scream acidissimo di Cornelius e i contrappunti epici ricamati da un Lazare in stato di grazia, il tutto permeato da una sottile autoironia. Uno dei problemi che genera una certa frammentazione soprattutto nella seconda parte del disco è la secondo me esagerata, forse prescindibile, presenza di tracce parlate – ben 3! -, utili a portare avanti la trama ma troppo lunghe e prolisse. Fortunatamente con “Loki Trickster God” si torna in carreggiata con un bel cammeo di Garm impegnato nel reinterpretare il tema della “White Frost Queen” del disco precedente; in certi tratti linee vocali un po’ posticcie, d’altronde da ‘Blood Inside’ il buon vecchio Kristoffer è perso in evoluzioni barocche zeppe di sovraincisioni e effetti, ma in questo caso il risultato è per fortuna abbastanza emozionante, probabilmente merito anche dell’arrangiamento ben riuscito. E poi? E poi una strumentale niente di che infilata tra due spoken words, per finire con la bellissima “Sagateller”. Il bilancio è di sei ottimi pezzi, dei quali tre quasi capolavori, su un disco da dodici, e questo potrebbe portare ad avventati giudizi di inferiorità rispetto al più bilanciato e unitario ‘Red for Fire’; ma è proprio l’impostazione del lavoro ad essere differente, e vi assicuro che skippando quelle tre tracce parlate c’è solo da godersi la giusta conclusione di questa emozionante avventura nei gelidi fiordi scandinavi, accompagnati dai migliori due scaldi attualmente disponibili sul mercato.