Modest Mouse – We Were Dead Before The Ship Even Sank

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La notizia non sta nel fatto che Johnny Marr suoni col gruppo; la notizia è che Mr.Smith sia diventato uno dei Modest Mouse, e la differenza non è da poco se consentite. Qui si va ben oltre la consueta collaborazione estemporanea tra giovani virgulti in cerca di padrini e la star blasè di turno, prostrata dall’attesa della catartica reunion e afflitta dall’ansia tra andropausa e prepensionamento. Il baronetto ha abbracciato la causa anima e corpo e saremmo pronti a scommettere che oggi è quello che alle prove si presenta per primo, in anticipo e spazientito perché c’è sempre qualcuno che bara sull’orario (e di solito chissà perché si tratta del batterista). La gioiosa macchina da guerra americana acquista così una vera e propria marcia in più e se già “il sorcio” aveva raggiunto vette difficilmente superabili con i due precedenti episodi sulla lunga distanza, il qui presente dischetto riesce nella non facile operazione di mescolare le carte, ancora una volta; indie rock che meglio non potrebbe rispondere alla propria definizione stilistica, sia chiaro, e che proprio nel suo ruminare e triturare generi e immaginari vicini e lontani mantiene salda la propria vocazione pop. Si apre con “March Into The Sea”, e ci trovi i pirati dei Caraibi incazzati neri ed ubriachi (I Birthday Party che affogano i Decemberists nel rhum), a seguire “Dashboard”, bomba neo-new wave che ti acchiappa il pischello modaiolo per la frangetta e in un minuto ti ridicolizza i Kaiser Chiefs e a ruota la fantasia “a cappella” di Fire it up” e i suoi ricami di chitarre prima del delirio di “Florida”; cattiva cattivissima, i Faith No More belli incarogniti che all’altezza del bridge si ricordano dei Beach Boys e d’improvviso innalzano a loro un canto: una “cosa” strana davvero ma riuscita come poche altre canzoni quest’anno.

Momenti topici? Una “Parting of the Sensory” che parte dimessa e increspata (molto Deus…) e si trasforma in un’appassionata rincorsa flamenco tra chitarre come cavalli andalusi e isterismi vocali; Una “Little Motel“ che distilla memorie perdute, te le serve su un piatto d’argento e poi ti chiede di dimenticare, ancora. Una “Fly Trapped in A Jar” che è un mostro funky con spalle da Hulk, Sly Stone e Liquid Liquid.

Se nel suo complesso il disco non è perfetto è forse soltanto per la troppa carne al fuoco che a tratti deborda, con qualche piccolo eccesso di estroversione quando si gradirebbe un pizzico in più di intimità. A parte questo però abbiamo la certezza di un album destinato a rimanere, una collezione di canzoni che ti appiccicano addosso come marmellata e non ti lasciano.
E in fondo questa è anche una bellissima storia a lieto fine in un mondo senza poesia. Il mito musicale del gruppo che diventa parte del gruppo e chi vuole sognare lo faccia, senza ritegno e senza porre limiti alla beata provvidenza. E chissà mai che nel bel mezzo della vostra partita a calcetto del giovedì sera non arrivi Roberto Baggio in persona a chiedervi intimidito ”Si può?”…