Giunge alla sedicesima edizione il Rock Island Festival di Bottanuco. Un traguardo di tutto rispetto. In tutti questi anni a Bottanuco sono passati piccoli e grandi nomi del rock indipendente italiano: artisti come Paolo Benvegnù, One Dimensional Man, Marta Sui Tubi, Zu, Yuppie Flu, Cut, Jennifer Gentle, Marco Parente, Julie’s Haircut, Cesare Basile, Afterhours, Marlene Kuntz e tanti altri. Anche quest’anno le cinque serate a ingresso gratuito sono costruite in modo da soddisfare più palati.
I Lombroso di Dario Ciffo (avete presente no? Il violinista degli Afterhours qui in veste di cantante e polistrumentista) e quel gran personaggio, sincero ed esplosivo, che è Giorgio Canali aprono la prima giornata.
Nella seconda suoni più corposi per gli ottimi tORQUEMADA (un incendiario mix di stoner, rock’n’ roll e psichedelia) e per i Linea 77 con il loro crossover che negli anni non invecchia (e che, guardando l’altra faccia della medaglia, purtroppo rimane sempre uguale).
La terza giornata vede un’accoppiata già testata in altre date in giro per l’Italia (e forte di una liaison professionale antecedente): il cantautore Alessandro Raina apre per i Giardini Di Mirò, a mio parere uno dei migliori gruppi attualmente in circolazione qui nel belpaese, grazie alla loro capacità di uscire dalla “trappola” del post rock per aprirsi a un indie rock a tutti gli effetti. Dal vivo mettono sempre i brividi sebbene oramai le parti cantate siano affidate ai “non cantanti” (storicamente parlando) Jukka Reverberi e Corrado Nuccini.
Il rock più classicamente indie degli Hogwash è invece rassicurante e lenitivo, e nonostante una partenza piuttosto lenta – per non dire stentata – ben si accompagna, come da contrasto, ai Petrol, gruppo di riferimento per la serata di sabato. Il nuovo progetto di Dan Solo (ex bassista dei Marlene Kuntz) e Franz Goria (voce dei Fluxus) ha toni forti eppure contraddittori: oscuri, potenti, ma laccatissimi e, ahimé, piuttosto impersonali. Nell’aria sembra di respirare un professionismo fin troppo bilanciato, e questo lo si nota sia nelle musiche (dall’alternatività quasi “scientifica”, come del resto l’esecuzione on-stage) che nei testi, impegnati nel raccontare un male di vivere a tratti canonizzato.
Chiude la kermesse l’interessante venticinquenne Ettore Giuradei e quel Moltheni che, con quel suo modo di scrivere sghembo, un po’ poetico e un po’ ironico, non lascia scelta se non prendere o lasciare (io lascio, ma solo per gusto personale).
Un piccolo grande festival.
Con la collaborazione di Riccardo Zamboni
Foto di Felson