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Se questa meravigliosa raccolta di canzoni di protesta può per assurdo suonare anacronistica è solo un gramo segno dei tempi che corrono, l’era di un disimpegno mentale e fisico assurto a stile di vita neppure contestabile che tantomeno ha bisogno di essere teorizzato per quanto è spudorato nella propria affermazione. E il loro essere “fuori da questi tempi” non è certo dovuto al peso dei decenni (quando non dei secoli…) che alcune di queste canzoni e traditionals d’indignazione e orgoglioso riscatto portano con sé, ma solo all’agghiacciante indifferenza dell’uomo del terzo millennio e del mondo distratto nel quale Mavis Staples si trova a rispecchiarsi alla bellezza di 67 anni con indomito orgoglio e speranza. Avete letto bene, orgoglio e speranza; perché la signorina negli anni sessanta con gli Staple Singers di papà Pops marciava nelle strade e arringava le folle rischiando la pelle in più di un’occasione (vedi West Memphis 1965) e nello stesso tempo invocava la grazia e la misericordia “da quello del piano di sopra” in quella chiesa che mai ha abbandonato, traendone quell’incredibile energia vitale che a tutt’oggi le puoi leggere sul volto e in quelle benedette corde vocali (e in tempi dominati da familismi di facciata e crociati sessuofobi viene spontaneo considerare quali percorsi diametralmente opposti possa ispirare la fede; la ricerca della verità e dell’armonia con il prossimo, o l’annegamento delle proprie paure dietro un rigido indice di principi e dogmi da contrapporre all’altro da sé…).
Ma torniamo alla musica, una buona volta; erano anni che la leonessa non ruggiva con tale decisione e con quell’inconfondibile misto di risentimento e dolcezza calza a pennello il vestito cucitole attorno dal maestro Ry Cooder, attorniato dalla consueta schiera di musicisti di prim’ordine (Mike Elizondo al basso, la batteria di Jim Keltner e i sontuosi cori di Ladysmith Black Mambazo). Il vasto repertorio affrontato scava nella tradizione del Delta blues più caldo e politico di JB Lenoir con una “Down In Mississipi” sommersa da cupi cori gospel, o del torrido country blues di “Turn Me Around” letteralmente irresistibile e dominata dal languido chitarrismo Cooderiano. Impressiona il pathos degli spiritual militanti”“We shall not be moved” e “We’ll never Turn back”, dichiarazioni d’intenti capaci di condensare in quattro minuti mezzo secolo di brucianti sconfitte, immani lutti e piccole vittorie del vissuto quotidiano dei neri d’America e delle minoranze tutte e riscalda il cuore i numeri più vagamente “pop” (ma sempre abbondantemente innaffiati di spiritual e R’N’B’) di “I’ll be rested” e “My Own Eyes”, unici brani scritti per l’occasione dai fratelli Cooder. Un disco che piace ancor più perché il repertorio classico è affrontato con una brillante disinvoltura e riadattato in una chiave attuale e sempre convincente (si pensi ad una “99 ½” in cui il classico talkin’ è reso con piglio quasi hip-hop, o a quella cosa funky che è la resa di “Eyes on The Prize”). Un’opera davvero Importante (e la maiuscola questa volta è un imperativo…) illuminata da una classe smagliante, un’artista ispirata e con una “missione”, grazie al cielo ancora conscia del ruolo che le compete nell’anno domini 2007.
Un commovente viaggio con vista sul meglio e il peggio dell’America di questo secolo; il coraggio di Rosa Parks, l’utopia del Reverendo Martin, i fuochi nelle notti texane, Rodney King e Los Angeles in fumo (e casi meno noti come il pestaggio del sedicenne Donovan Jackson), Spike Lee, i costi folli di una guerra assurda e New Orleans che cola a picco nell’indifferenza generale, con lo sguardo rivolto al futuro “per non tornare indietro”…