Spaziale Festival: Davanti e Dietro la Quinta # 2

Secondo Round dopo la pausa Traffic: con la doppietta Mudhoney e Beasts Of Bourbon culmina e si esaurisce l’ubriacatura protogrunge inaugurata la settimana scorsa: i live elettroacustici di Bright Eyes e dei Wilco danno una bella ripulita al tutto e ci portano dritti alle frequenze brasileiro-elettroniche di Lovefoxxx e dei suoi CSS.

15/07/07
Mudhoney + Beasts of bourbon

“Papà Kim e i Professionisti dello Sporco”
Oggi c’è davvero il rischio che caghino sulle pareti. Non per confermare i soliti luoghi comuni su cui vive e prospera certa stampa rock, ma immaginatevi Mark Arm e il suo fratellone ispiratore Kim Salmon condividere come due ciccaroli in gita scolastica la stessa stanza, e in questo caso proprio il locale dello Spazio, adibito ai camerini. Quel che salva un po’ è il ritardo con cui entrambe le band si presentano ai cancelli: un’ora per i mudhoney, ben tre per i Beasts of Bourbon che abbozzeranno un soundcheck con davanti già i primi arrivati. Appena il tempo di scolarsi quelle quattro casse di birra che faranno la differenza…
Chi è abituato a vedere Kim Salmon come il cuginetto “sfiga” di Nick Cave non ha considerato quanto poco quest’ultimo condivida le ambizioni letterarie del collega, al quale comunque dà parecchi punti in fatto di tenuta scenica. Stasera poi è al comando della sua creatura più prolifica, fresca, per l’appunto, di un’altra uscita discografica senza infamia né troppa lode: a dispetto delle prove frettolose i Beasts hanno un gran suono, cattivo e pesante. Lo stesso si dica per le corde vocali del loro leader, che ruggisce per davvero, placandosi soltanto per sogghignare nel microfono o omaggiare il suo pubblico italiano con un simpaticissimo saluto fascista: l’ubriachezza molesta del resto sembra essergli indispensabile per offrire questo popò di spettacolo, da frontman professionista. I pezzi dell’ultimo “Little Animals” sono snocciolati assieme alle vecchie perle (“Chase the Dragon” su tutte) nel tempo di quarantacinque minuti, intensi ma non sufficenti per restituire la soddisfazione di uno show che avrebbe potuto essere totale.
Le critiche che solitamente si oppongono ai Mudhoney sono come i loro dischi: sempre uguali. Non ha molto senso ribadire ancora quanto il gruppo di Seattle sia rimasto appiccicato a quel Superfuzz che vent’anni fa ha dato i natali al grunge: loro stessi non sembrano interessati a prediligere le novità rispetto al repertorio classico, sempre che la parola “classico” abbia un qualche senso per un gruppo di tal fatta. Si comincia infatti con “You got it”, primo singolo datato 1988, il che è tutto un dire: da “Suck You Dry” in poi è discesa libera per musicisti e spettatori, con qualche primizia qua e là ma senza mai variare troppo il senso generale delle cose.
Va anche detto che non rimane un centimetro cubo di aria per poter criticare, anzi, la chitarre di Turner e il basso del “nuovo” Guy Maddison saturano a dovere l’atmosfera. La nota dolente tuttalpiù potrà arrivare sul movimento scenico, visto che i quattro saranno assolutamente statuari per gran parte del concerto: nulla a che vedere con la dinamicità coinvolgente di chi – pur su coordinate stilistiche molto vicine – li ha appena preceduti e ora se ne sta a godersi lo spettacolo a lato palco, come su una tribunetta d’onore. Le cose si agitano solo quando Arm si disfa della chitarra e intona, microfono alla mano, “hatethePolice”, vero inno della serata, ancor più della “touch Me I’m Sick” di poco fa . D’altro canto la fissità dei suoi componenti è perfettamente esplicativa per una band come i Mudhoney, di nuovo fuori solo per cantare (indovinate un po’?) “Here Comes sickness” e una cover dei Black Flag, salutandoci felicemente incastonati nel ghiaccio dei loro ottanta-hardcore.

16/07/07
Bright Eyes + Jaymay
“ Folk minimale, folk Extralusso”
I Bright Eyes non sono certo un fenomeno di massa da queste parti e non è difficile capire perché, radicati come sono nella tradizione di mamma America : sappiate però che esiste gente che per vedere Conor Oberst viene da lontano ed è disposta a farsi la notte in treno pur di raggiungerlo a Ferrara. Il pubblico, poco ma affezionato, farà il conto alla rovescia durante l’esibizione di Jaymay: lei è di New York e tutto ciò che ha è una “ragged guitar” e una gran voce. Resuscitano gli spiriti di Guthrie e della Mitchell e, fra il passato fiorentino la canzone dedicata all’amico morto, spunta pure un po’ di noia.
Certo che se i suoi ospiti avessero optato per lo stesso minimalismo, smontare il palco nel dopoconcerto non avrebbe richiesto tutto quel tempo. E invece la grandiosità del progetto Bright Eyes passa anche per un palcoscenico complicatissimo, con pedane, sovrapedane, due batterie da un migliaio di pezzi l’una, immagini animate proiettate come sfondo visivo e composizioni floreali ad ornare le postazioni dei musicisti. E quanti musicisti! Una comitiva di bianco vestita e pronta a rinnovare le sorti del folk con tromba e violini: potremmo chiamarlo un country deluxe, ma si rischierebbe di fare un torto alle varie aperture danzerecce, che ricordano un po’ i nostrani Gang.
Lo spettacolo, che di questo si è trattato, è assai incentrato sulle movenze artistoidi di Oberst: il songwriter irradia da tutti i pori un divismo che solo in qualche caso è anche carisma. Entra per ultimo e per ultimo se ne va, attira a sé le attenzioni dei colleghi e quella dei cuori in palpito per le parole romantiche di “Make a Plan To Love Me”: soltanto suoi sono gli occhi lucenti e solo lui è il legittimo proprietario di un microculto che non accetta sconti e che, anche se su scala minore, funziona pure in Italia. A onor del vero va detto che la macchina che gli gira attorno è compatta e bravissima a spalleggiarlo, il che contribuisce ancor di più a schiacciare tutta l’azione sullo “specchio del palco”.
Cantante che irradia sulla band, band che irradia sul pubblico, quello dei (anzi, di) Bright Eyes è uno show concentrico e a senso unico, che imbocca lo spettatore a grandi cucchiaiate senza mai concedergli spazio per ricambiare. Qualcosa di assai diverso da ciò che succederà domani…

17/07/2007
Wilco + A. Raina
“With the lights out…”
Sono trascorsi undici giorni da quando i Giardini di Mirò sono passati di qui, e quattro anni da che Alessandro Raina ha definitivamente smesso di essere un Giardino: percorsi in comune e destini incrociati che non hanno fatto recedere il cantante dai propri passi. Mentre i suoi ex compagni si dirigono – almeno nell’attività in studio – verso l’indie a tutto tondo, Raina non ha ancora superato la sbornia post e la sua esibizione di oggi riscontra gli stessi sintomi di quella del gruppo di cui faceva parte. Nessun basso, la batteria c’è ma ha un suono così sordo che sembra looppata, et voilà: risolta la questione ritmica. Tutto quel che si riesce a sentire è la voce dimessa e i soliti strascichi chitarristici, ad opera del socio che lo accompagna. Se la personalità del nostro proprio non riesce ad esplodere e a far presa sul pubblico, gli vada almeno riconosciuto il merito di esser riuscito a rendere “There is a light that never goes out” degli Smiths più desolata ancora, il che, immagino, rientra fra i sogni proibiti di ogni postrocker che si rispetti.
Come gli elettori di Berlusconi, i fan dei Wilco ci sono ma non si vedono: l’unica data italiana dello “Sky Blue Sky Tour” li costringe ad uscire alla luce del sole, circa duemila da tutta la penisola, qualcuno anche da fuori. Una coppia di enfatici americani in particolare assicura me, così sprovveduto da non aver mai assistito ad un loro concerto, che i Wilco “will rock out this place!”.
Per quanto mi riguarda, nessuna delle molte voci – alcune assai autorevoli – che si sono levate a loro favore è ancora riuscita a convincermi che “Sky blue sky” non sia quel gran piattume che sembra, specie in confronto ai dischi che l’hanno preceduto. L’attacco con “Either Way” non fa che confermarmelo: è la fedeltà millimetrica all’originale che rende Tweedy e i suoi dei musicisti esperti, tecnicamente impeccabili e…noiosamente bravi. Almeno sulle prime, tutto scorre su due binari, in perfetto equilibrio fra elettrico ed acustico, tanto che il picco emotivo sta nella vomitata più svenimento di un grosso tizio in prima fila, davvero malmesso.
Le prime scosse arrivano dalla Jazzmaster di Nels Cline che, per essere un avanguardista, come si dice in giro, si fa certe uscite rock-blues-anni-settanta che farebbero eccitare Mike Bloomfield! Queste irruzioni fragorose e quasi rumoristiche su paesaggi placidi e rassicuranti sono il nerbo della musica dei Wilco, anche e soprattutto dal vivo. Mentre in prima linea si segue imperturbabili una melodia vocale alla Simon & Garfunkel, vedi drummer e chitarra cominciare a picchiare come dei dannati per conto proprio: hanno appena fatto capolino i pezzi di “Yankee Hotel” e la differenza si sente. “Kamera” e “Jesus etc” portano ancora ben impresso il marchio O’ Rourke, e riescono a spostare il baricentro su un pop rock perlomeno più sveglio. Ma non basta. Sono più o meno le undici e trenta quando Nostro Signore decide che tutti i gruppi folk rock pettinatini vanno puniti e riconvertiti: e luce non fu più, calaron le tenebre sui Wilco e sullo Spazio 211. Il blackout manda in pianto mezzo staff ma non tange l’entusiasmo di Kotche, impassibile nel battere il ritmo per cui è stato programmato: i Wilco kids, nuovamente a proprio agio nell’ombra, lo seguono a ruota.
E’ da inconvenienti come questi che viene a galla la pasta di cui sono fatti i musicisti, l’evento in sé, il pubblico e –consentitemelo- gli italiani, capaci di trasformare in un pappaparaparà da stadio persino il riff della lunghissima “Spiders Kidsmoke” che, pure con il guasto di mezzo, non perde neanche uno dei suoi dieci minuti. “Non abbiamo bisogno di elettricità, siete voi l’ elettricità stasera” . D’accordo, in realtà Tweedy dice “power” che è un tanto più poetico, ma oramai si sarà capito ugualmente qual è la parola chiave della serata.
Per un terzo e meritato bis – dopo quasi due ore di musica – il gruppo schiva una troppo prevedibile “What light” e le preferisce vecchie chicche rumorose come “Misunderstood” e la “Hoodooo Voodoo” che fu concepita con Billy Bragg e che qui chiude la baracca entusiasta.
Elettricità che per un attimo si è negata e che ora Tweedy tiene stretta stretta a sé: la lezione, almeno per stasera, sembra imparata.

18/07/07
CSS + My awesome Mixtape
“ Nastri e palloncini”
E’ un peccato che un festival tutto sommato ricco e azzeccato nelle scelte come questo debba concludersi con un live di così poca consistenza. Se c’è un trait d’union stilistico fra questi fenomeni modaioli, oltre all’autonomia di un due tre anni massimo, è quella di essere così “mediatici” da svuotarsi inesorabilmente una volta travasati dallo schermo alla realtà.
Per certi versi, sarebbe stato assai meglio concentrarsi sulla concretezza di qualche primizia di casa nostra: i My Awesome Mixtape, ad esempio, che aprono in ritardo per lasciare giusto un ‘oretta agli headliners brasiliani. Bologna continua a sfornare le cose migliori e ormai c’è tutta una serie di voci dalla pronuncia angloemiliana che iniziano da Jukka e finiscono più o meno da queste parti, con l’acconciatura marsvoltiana del giovane cantante. Gli spiriti più affini sono quelli degli Yuppie Flu e del rap un po’ sfighè degli Amari, ma nella meravigliosa cassettina dei bolognesi c’è dell’altro: il loro live parte dal ritmo fermo della batteria (questa campionata per davvero) e procede per sovrapposizione di suoni e strumenti, cui si aggiunge per l’occasione la chitarra di Maurizio, allo Spaziale in veste di fonico, ma in realtà fondatore e volto de “I Dischi dell’amico Immaginario”. La label torinese, annunciano i MaM, darà alle stampe il loro primo full lenght e, per quanto ci è stato concesso di sentire oggi, varrebbe la pena tenerlo sott’occhio. Chiusa marchetta.
I palloncini. Un quarto d’ora prima che i (le?) Cansei de Ser Sexi facciano il loro ingresso, il palco è già bello addobbato di palloncini colorati e festoni luminosi, un’immagine molto carioca. Rispetto a quanto si racconta in giro di lei e delle sue bizze da star, qui LoveFoxx si è comportata piuttosto bene anche se sul palco continua a fare la pazzerellona a tutti i costi. A vederla in azione, non è altro che un’estremizzazione delle dive glamour che tanto detesta, Paris Hilton e la Beyoncè citata nel nome stesso della band. Infilata nella sua ormai classica tutina di pailettes, schiamazza tutte le canzoni dell’album di debutto, curiosamente orfane di elettronica: nel tentativo di reinventarsi come gruppo da palco i Css perdono molto di quel battito electro che ne aveva fatto per un breve attimo le reginette dell’hype. Quel che rimane è intrattenimento dichiarato: le frasi e le parolacce in italiano, le luci e i balletti brasileiri, molta forma sberluccicante e poca, pochissima sostanza musicale.
Al termine del set (un’ora scarsa, il più breve di tutto il festival) LoveFoxx e allegre compagne si dilettano a buttare coriandoli e a far scoppiare i palloncini…già i palloncini…colorati, divertenti ma pieni soltanto d’aria: una volta esplosi, non ne rimane nulla. La simbologia incombe…