Down – III – Over The Under

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I Down sono tornati. Difficile aspettarselo, difficile davvero. Ma probabilmente le menti dei componenti non sono ancora abbastanza ottenebrate da renderne impossibile il ritrovo. Abbiamo tra le mani ‘Over The Under’, capitolo terzo della loro storia: che disco è? Non serve alcun trastullamento tra i generi, perché sguazzare tra i riferimenti è qualcosa di sterile in questo caso; i Down non sono la cult band che sono grazie a comunicati stampa, hype, sparate mediatiche… sono solo e unicamente sostanza. Sono la loro musica, che attende ogni volta parecchi anni per tornare, ma quando lo fa non la si dimentica, come difficile è dimenticare la peggiore delle proprie sbronze notturne, quella tormentata e sanguinante, quasi agonizzante e drasticamente sincera.
I Down sono la nicchia storica, la vecchia guardia della musica ossessionata che per incanto diventa papabile per una più vasta platea. E questo è possibile per via d’una particolare dote, perversamente ottusa e probabilmente immeritata, eppure vera: il talento. I cinque di New Orleans sono dei sapienti artigiani, probabilmente i migliori nella loro arte, maestri del concreto e dell’alieno; alieno agli stili, alle contingenze di mercato, alla logica stessa. ‘Over The Under’ è un disco low profile, uno straccio sudato gettato a terra, che senza ambizioni altisonanti da l’ennesima vita al “blues” e dunque al “rock”; più che generi pulsioni interne, massimi sistemi del suono dal moderno ad oggi.
Loro ne detengono i canoni, probabilmente per il semplice fatto di non saperli spiegare e assieme di essersi dimenticati di ciò che esula dalle proprie vite, e quindi dal dramma che fa andare la musica oltre i concetti. Phil Anselmo è l’oracolo distorto di quella che resta una delle più importanti esperienze “rock” di fine e inizio millennio.