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Analizziamo la proposta dei The Ocean (collective?) tenendo conto dei continui responsi mirabili della critica. Ad un primo esame “concettuale” l’impressione è quella di trovarsi di fronte a del post-hardcore con velleità molto intellettuali: fare un disco sul PRECAMBRIANO – che la maggior parte di noi neanche sa cosa succedeva, durante il precambriano – chiamando ogni canzone col nome di una suddivisione cronologica del suddetto eone geologico già è cosa piuttosto ardita. Anche considerando che, durante quei mille miliardi di anni e più, sulla terra ci vivevano solo dei batteri nei pressi delle sorgenti magmatiche.
Accantonando le riflessioni concettuali, che poi servono a poco di fronte alla musica, ci si trova davanti a due dischi. Il primo contiene cinque tracce per venticinque minuti, e rappresenta il versante più “metal” della proposta, fallendo pesantemente nell’impresa di scatenare curiosità o almeno interesse, con riff dal vaghissimo sapore techno-trash (io vi ricordo che su queste cose, fatte meglio, ci giocavano gli Atheist tipo vent’anni fa – solo che non erano un “collettivo” e non avevano una produzione fatta con il lucidaparquet), cantato più monocorde del peggior disco dei Burst – e non serve a nulla vantarsi ai quattro venti di avere qualche verso cantato da Caleb Scofield o Nate Newton, la cui potenzialmente utile presenza si perde nel marasma di nullità generale – e praticamente nessuna attenzione verso dinamiche, forma canzone e tiro. Discorso simile ma opposto per il secondo cd, di quasi un’ora, che dovrebbe presentare il lato più melodico e liquido del concept. Già dalla prima Statherian si ha l’impressione di deja vu: ‘Be’ dei Pain of Salvation torna prepotentemente alla memoria. Poi un’apertura dal sapore isisiano per Rhyacian che osa durare dieci strazianti minuti, velleità percussive e orchestrali tra campanellini, viole e violini, il tutto ulteriormente appiattito da quel sapore di prog metal della peggior specie che non riesce ad andar via dopo più ascolti. Finalmente almeno un po’ di postcore! Eccolo, in Ectasian… no, no, questo è doom, senti che roba, a tratti paiono i My Dying Bride, pure i violini. Forse “postcore” allora significa iniziare piano piano e poi sempre più forte poi metti la distorsione e urli? Chissà. Un’ora e ventitrè minuti di soporifero sprofondare in velleità orchestrali, climax prevedibili e comunque non com-moventi, schitarrate asettiche e violente quanto Mahatma Gandhi. The Ocean Collective riesce a partorire un (doppio) disco di prog/trash metal privo di qualsiasi mordente, verboso, pretestuoso, pretenzioso e presuntuoso che tutti elogiano e io schifo, attendendo orde di intellettual-metallari pronti a darmi dell’incompetente.