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Un senso melodico spiccato, una capacità diabolica di farsi ricordare e riascoltare, un paio di arrangiamenti particolarmente azzeccati, un titolo spiritoso e un suono maledettamente piacevole all’ascolto trattengono il sottoscritto, armato di tastiera fino ai denti, dal far fuoco sui Dot. Che son bravi e pure tanto per un gruppo italiano con tre anni di vita e per giunta autoprodotto, ma che davvero tirano troppo la corda!
Non sono tanto i frequenti cenni a quel rock soffice “che piace aiggiovani”, tutto sommato perdonabili se si considera che per una band di primo pelo un’attitudine alla melodia come questa è soltanto un dono di Dio. E non si tratta nemmeno di quel ronzare furbetto attorno all’ Emo, senza però mai pronunciare effettivamente la parola(ccia).
No, il punto sta piuttosto nella presentazione del materiale, così aderente ai modelli anglofoni da far dubitare della provenienza di un trio, autoproclamantesi “italian rock band” in una lettera d’introduzione che però parla inglese! Inglese a tratti zoppicante, e lo si dice non tanto per il gusto di fare i professorini, ma per il dovere di ricordare che ogni copia dell’originale è, immancabilmente, brutta copia. A maggior ragione quella fedele, realizzata con il vocabolario sotto mano per poter gestire meglio una lingua che si conosce ma (per ovvie ragioni sociogeografiche) non si riesce a padroneggiare come la propria lingua madre. Ed è così anche per quanto riguarda la musica: non importa quanto siano tecnicamente esatte le esecuzioni, sempre di copie si tratta, e in quanto tali inferiori al modello primo. Alla meglio, così stando le cose, si potrà ottenere un sottoprodotto, una succursale che riproduce in scala la ditta madre, una laboriosa colonia di altro impero.
Fin quando non si faranno una ragione di essere nati a Forlì piuttosto che a Los angeles, dei Dot e di tutti i loro talenti si potrà dire al massimo che suonano “proprio come i gruppi americani”: e non sono sicuro che si tratti di un complimento.