Offlaga Disco Pax: La traccia che salta è la numero due

Prendere tutti gli anni Ottanta al rallentatore, e metterci sopra una voce narrante, ma narrante fatti di quasi nessuna importanza, che attraverso una scrittura affilata e amichevole, ironica e deviata, assumono il ruolo di eventi esistenziali, o politici, se te lo puoi permettere, ma nell’accezione base del termine. Questa è l’idea.
Quando appresi la notizia del secondo album degli Offlaga Disco Pax ebbi l’impressione che ODP sarebbe dovuto rimanere un discorso unico e concluso, un hapax, una splendida concomitanza di fattori da manifestarsi una volta sola, e poi basta, lasciando tutti di stucco e pure un po’ cambiati. E invece no, invece Max Collini è di nuovo lì, con la sua poetica e con le sue cose a bassa intensità, e con una parigliata di argomenti nuovi. E dev’essere proprio un grande affabulatore, il Collini, se riesce a farti stare lì, attento e di nuovo incollato ancora una volta alla sua voce monotonale, e ad un’altra manciata di brani come fosse niente, con la stessa curiosità che avevi ascoltando il disco numero uno, e a scoprire di nuovo con piacere che niente di tutto quel che c’è vada a finire nel vuoto, nel retorico, o ancora peggio nel manierismo (rischio al secondo disco meno che mai trascurabile).
E dire che i suoni (a dire il vero un po’ meno minimali) si vanno a piantare sempre lì, in quella zona umbratile e piena di buone intuizioni che era tra il post-punk e l’incalzare di quelli che si chiamano Gli Anni Ottanta, quella zona dal nome ambiguo di new wave, con tutti i suoi peccatucci synthpop, e che suona qui come una dimensione parallela in cui il podio italiano dei Righeira l’avessero invece occupato i Gaznevada.
Come che sia, il concerto inizia e Collini sta MALISSIMO: tossisce copiosamente, starnuta, si soffia il naso, e sulle prime note di Ventrale avanza verso il fronte del palco. Sarà l’antibiotico, sarà il carattere schivo, ma appare chiaro che Collini ci odia. Ci scruta ombroso, incredulo, disperante, e non vuole entrare nel pezzo, per niente. E’ la volta di Enver con il suo giro di basso a vertigine, “sento un frastuono”, e la folla giubila, è l’inizio di un disgelo. E poi inizia la vendetta – la loro – perché Superchiome è il modo in cui gli Offlaga Disco Pax sui giovani d’oggi ci scatarrano su, e perché appare chiaro che al sig. Collini non gliene freghi proprio niente che la gente sotto al palco gli faccia il verso sulla sua volutamente patetica imitazione di Piero Pelù: “…morgana!” (durante il romanzetto criminale di Dove ho messo la Golf?). Fosse per lui, userebbe il napalm, qui ed ora. E intanto, andando a scrutare con lo sguardo da sotto a sopra il palco, mi accorgo di piccoli cambiamenti rispetto al primo seminale tour del 2006, e alle loro “prove tecniche di trasmissione”. Sul palco c’è un po’ più di sicumera e un po’ meno calore, ma forse il vecchio Zoobar, come fragile tempietto di resistenza wave, doveva suscitare ben altro fascino su un neosensibilista rievocatore degli anni 80’, rispetto a questo Circolo degli artisti. Guardo ancora, il gear è leggermente rinnovato e un po’ più scintillante, Collini, ad esempio, ha passato il suo Casio digitale con calcolatrice al bassista (l’orologio). Le solite mollette reggono i testi …ed ecco, gli Offlaga sono tutti qui, delle mollette per i panni, tutte rosse, ovviamente, ma per intonarsi al nero del leggio (o no?). Ed ecco tutto: cose, parole, colori, immagini trascurate, e meglio riusate, vendicate dall’uso quotidiano e sconsiderato a cui sono state sottoposte, per renderle, alla fine, più umane. E intanto Sensibile sfodera la sua favolosa apertura di chitarra, e il Collini si indigna davvero, usando una storia non più regionale – Francesca Mambro e Giusva Fioravanti – per enunciare il suo manifesto e il suo credo neosensibilista, opposto al concetto di sensibile di due ragazzi degli anni Settanta, sconsiderati tanto negli atti quanto nell’uso del vocabolario, e tanto quanto la società che li ha prodotti. Il brano dal vivo è favoloso, una via italiana al post-rock stile Giardini di Mirò, ma virato all’elettronica, e colpisce al cuore.
Collini alla fine si rilassa, ride, il pubblico risponde, e un concerto che poteva non essere memorabile lo diventa, e da qui in poi, il resto, sarà una storia bellissima. Tono Metallico Standard ci investe con la sua pioggia di chitarre shoegaze direttamente dal primo disco. Viene da chiedersi quanto Collini abbia ancora voglia di declamare le stesse cose, ogni volta che deve. Ma lui ha gli occhi iniettati di sangue, e si diverte, gridandoci in faccia la protervia dappoco della cultura “da clubbetto” che lo vede totalmente fuori: impreparato e schernito da un lurido clerk indegno, dotato di meravigliosi ascolti indipendenti. E poi è la volta di Lungimiranza, che proprio di fenomenologia e ideologia da clubbetto alternativo indipendente parla, ma “è una storia di vent’anni fa, avvenuta in un posto un po’ tipo questo (si riferisce al Circolo) ma molto, molto più sfortunato”, qualcuno capisce. Una vecchia conoscenza come Cioccolato Iacp in questa veste si fa ancora più livida e sentimentalmente distruttiva, punteggiata com’è per tutta la sua durata da bip elettronici, un misto tra la discesa suicida degli alieni di space invaders e la macchina per l’elettrocardiogramma degli ospedali.
Il chitarrista tira fuori una Jaguar, e con questa punteggia le prime note di Fermo!, e il Collini ci crede, ci crede nell’inno partigiano e montagnardo di un rarissimo gambero del Lago di Pilato, e nel suo desiderio di liberazione dalla sua proficua condizione di specie in pericolo: perché è inevitabile che nelle sue giuste ambizioni di emancipazione contro la Reazione, che lo vorrebbe imbelle e in via di estinzione, lì, al confine tra l’Umbria e le Marche, ci sia qualcosa che parla anche di te.
E poi un apice, in stato di grazia, con la splendida Venti Minuti, brano scritto da Collini sulla figura del padre, un padre odiato cordialmente, da sempre, e poi scomparso, a cinquantaquattro anni. La legge, perché non se la ricorda tutta, ma la voce gli trema. E forse è questo il vero neosensibilismo reale e applicato. Non lo dico per scherzo. Lo dico perché è evidente che stia lì per vendicare, con la forza di un pensiero lucido e un’onestà intellettuale portata fino allo spasimo, stupidate televisive o stupidate musicali, che riesca, come niente fosse, a far vergognare di se’ finte depressioni, lo star male per forza o il fingere scazzi. (E pensare che basta solo mettere sul palco un essere umano).
Segue l’anthem per la celebre antroponomastica emiliana, da sempre assolutamente non-clericale, materialistica ed enigmistica: niente santi da lunario. “Per capire questo brano, procuratevi l’elenco del telefono di Reggio Emilia” dice, e ce lo mostra. Ed anche questa è una suggestiva fetta di Emilia che diventa allucinato esistere nella Storia: la cultura italiana di base. E sull’ outro di questa Onomastica compaiono favolosi riferimenti a Kelly Watch the Stars degli Air, e scorrono i titoli di coda. “Chi non compra i nostri dischi, peste lo colga!” termina Collini, rifacendo un improbabile Amedeo Nazzari.
Estetica 8 bit, un suggestivo effetto di ripetizione ed eccoci ai bis: Un Kappler più che mai energico, seguito parola per parola dal pubblico, una Robespierre arrangiata come un pezzo di Heather Parisi, e poi – magnete e-bow alla mano – il chitarrista ci delizia con uno dei brani più belli del primo lavoro:
Tatranky
, che attraverso il destino di uno snack dolce rievoca le sorti di una città come Praga, violentata in sequenza da due sistemi economici contrapposti, ma entrambi devastanti.
Quello che alla fine resta, e che ne esce davvero, è l’impressione di aver assistito ad un concerto di post-rock all’italiana, contaminato coi synth e una verve per il rumorismo e l’elettronica vintage davvero di gran gusto. E la struttura a circolo di certi brani stordisce, ti si pianta in testa, spiazza. La coda noise con cui termina lo spattacolo è da urlo. E alla fine te ne vai comunque soddisfatto a farti la tua vodka lemon. Gli anni Ottanta avevano definitivamente una coscienza, e non solo paninari e una milano da bere. E di tutto questo, qui, c’è fortunatamente niente.


Foto di proprietà di missbiside e Mark Brugo e Alienblack