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Oltre ad una fantasia di copertina che ricorda la carta da parati di nonna Abelarda, c’è un altro aspetto in ‘Ten Stones’ che trasgredisce il decalogo di asciuttezza e semplicità per il Disco Rock Perfetto: il “lirismo” è qualcosa in grado di stringere nella propria stretta mortale e pietrificare anche il migliore dei dischi elettrici, da cui ogni rock band che si rispetti dovrebbe guardarsi come da una peste bubbonica, Per David Eugene Edwards, però, questo è anche un “dono maledetto”, ricevuto in eredità dal babbo predicatore metodista che negli anni dei Sixteen Horsepower e che l’ha reso di fatto uno tra i più talentuosi songwriter “cristiani” che l’America conosca dalla stessa scuola di altri illustrissimi, come il Cave o il Cash di turno.
Ma se la vocazione di papà veniva direttamente dai Piani Alti, la propria Edwards junior se l’è dovuta sudare, anzi, ne è tuttora alla ricerca. Nessun rischio di pistolotti da oratorio, quindi: il suo è un cristianesimo estetico lontanissimo dalle canzonette da premio-bontà per parrocchiani (leggi “christian rock”) e decisamente più simile a quello proletario di un P.P.Pasolini, una fede combattuta che sale dal di sotto e non ha paura di rovistare nelle porcherie dei bassifondi prima di tentare l’ascesa: come fiori di baudleriana memoria, i suoi testi guardano all’alto ma restando ben radicati a terra. E’ per tutte queste ragioni che l’oratoria non riesce ad imbalsamare la musica dei Wovenhand, ma al contrario, la rivitalizza dall’interno, le fa da motore e da traino emotivo.
In ‘Not One Stone c’è l’idea di una chiesa che va al di là del concetto di istituzione religiosa. Ogni canzone rappresenta una pietra di questo simbolico edificio”: e per ricostruire tutto quanto daccapo senza dare retta a pulpiti, alti prelati o simili tanto vale ripartire dalla linea sottile che divide beatitudine e dannazione, con qualche concessione a quest’ultima almeno in termini di elettricità: l’armonica urlata di White Knuckle Grip e i distorsori a mille rimpiazzano gli antichissimi aggeggi pagani che cigolavano in ‘Sackcloth’n’ashes’ dando a tutto il discorso un tono più heavy. L’unico momento di requie è un sempreverde del cantato confidenziale scippato alla Bossanova di Carlos Jobim, Quiet Night of quiet stars dove lo sguardo verso il cielo si fa una volta tanto placido e beato.
Auguriamo di tutto cuore a David Eugene il lieto fine delle sue passioni, quanto a noi, se i risultati dovessero restare di questa caratura, stiamo benone anche così, grazie.