Uzi & Ari – Headworms

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Si parla molto spesso di territorialità, ma la territorialità ha ancora molto senso per il nostro discorso? Stiamo diventando tutti cittadini del mondo? La musica sembra affermarlo. Per questi Uzi & Ari ad esempio si parla spesso di una certa derivatività dai migliori Radiohead degli ultimi tempi (da ‘Kid A’ in poi), frammista ad un afflato shoegaze nelle esplosioni più chitarristiche. Più o meno. Quello che si omette, e che ci importa sottolineare ora, è che si tratta qui di una band di origine californiana. Il che renderebbe molto più comprensibile l’approccio chitarristicamente più west coast (nel senso non tamarro del termine) di certi passaggi e di certe atmosfere. Senonché dopo averli ascoltati dal vivo, i riferimenti più vicini e nettamente percepibili a cui riferirei quanto ho sentito sono i Mew, per certe levità sghembe e melodiche, i Sigur Ròs o Bat For Lashes per copiosità di strumenti e sovrapposizioni di pattern sonori, e gli Oceansize per la verve post-core e post-rock che innerva tutti i brani più chitarristici. Il che equivale a dire che una band californiana suona principalmente come una band danese nelle sezioni più riflessive, come una band islandese nei momenti più copiosamente orchestrali e come una band inglese che si ispira al post-core americano nei momenti più chitarristici. Il tutto filtrato attraverso una ben percepibile frequentazione canadese degli Arcade Fire. Roba da perderci la testa. Se c’è una territorialità che si possa imputare agli Uzi & Ari è semplicemente quella di risentire inevitabilmente delle derive del core dei primi anni novanta, di certe attitudini a sciogliere i suoni di chitarra di certi Jawbox, e perché no, dei Dinosaur Jr. insomma di tutti quelle band che innovarono, intellettualizzandolo, il suono del punk americano, e che così facendo prepararono il terreno a certe deviazioni del cosiddetto grunge, al tanto temuto (ma non allora) emo, o ad alcune band che dal core succhiarono linfa vitale. O ancora, e a maggior ragione,delle tendenze che confluirono nel post-core e via dicendo. Insomma, di tutto quel glorioso retaggio lì. A questo punto i suoni cangianti di chitarra, tutti giocati sul ribattere le armonie e le disarmonie possibili degli accordi, vanno al loro posto, e ci rendono partecipi del fatto che non solo le aspre brughiere inglesi possono ispirare certe malinconie, ma invece anche l’Oceano Pacifico, il sole a picco di una città fatta di boulevard, il deserto riarso delle statali, gli occhi di Marlon Brando, e gli scuolabus gialli dalle fiancate incrostate dal salino. E ci fanno capire da dove venga quell’accento in più, quel sentire proprio e peculiare che salva la band di San Francisco dal diventare l’ennesima “i nuovi radiohead”. E poi il giuoco funziona ancor di più se oltre a quel guizzo di originalità troviamo brani davvero ben scritti, piccole perle che non rivoluzioneranno la storia della musica, ma che non mancano di dimostrare ad ogni passaggio concretezza, ispirazione, eleganza e pathos, e di destare emozioni non preconfezionate.
Brani come Missoula e Patron Saints, o Ghosts On the Windowsill dotati davvero di belle esplosioni e di grande scrittura, la marcetta di Comforts che dal vivo viene estesa in un crescendo shoegaze, e non ingannino gli approcci minimali della title track Headworms, o di Magpie’s Monologue o ancora Thumbsucker, una ballata che sembrerebbe uscita dal mazzo dei Kings of Convenience: la band dal vivo suona molto più robusta e chitarristica, come la sua origine vuole, contro ad una produzione che sul disco la vorrebbe più legata all’elettronica ed alla scarnificazione dei suoni. Tutto considerato, non rendendole un grande servizio.
In definitiva, la morale è sempre quella: si parla troppo facilmente di band che assomiglierebbero ai Radiohead come di nuovi salvatori della patria (e che guarda caso spariscono dopo meno che poco), e allo stesso modo si accusano di derivatività band come questa, che non se lo meriterebbero proprio. Giudizi affrettati, ansia di stare dietro ad una scena che si è fatta troppo veloce e prolifica, copia e incolla del parere più autorevole. Chi lo sa. Sicuramente c’è qualcosa di “europeo” nel retaggio di questi musicisti, ma quanto c’è di americano nelle corde di questa band! Gli asettici paesaggi di una sala d’aspetto di un aeroporto, facile come prendere un autobus, la facilità di una tramonto sulle villette a schiera di una suburbia di Washington, la brezza leggera mentre parcheggi la tua auto proprio davanti ad un mall dopo aver guidato mezz’ora per raggiungerlo. Le stesse atmosfere di Updike, la stessa provincia unificata, di cui tutti, forse, siamo ormai inconsapevoli cittadini. E la convinzione che ormai, in qualsiasi parte del mondo, oggi, si possa essere raggiunti da una qualsiasi ispirazione. Ultimo baluardo da abbattere resterebbe sempre e comunque il nostro inconsapevole, colpevole o meno, occidentalicentrismo. Chissà che un giorno, una deriva, una divisione del nostro rock, non lo superi. Sicuramente qui stiamo sulla buona strada. E forse non è un fatto particolare che questo stia avvenendo in America?