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28 settembre 2010 | www.subpop.com | No Age MySpace |
Glitter
Il noise rock ha lunghi e gloriosi trascorsi di terrorismo sonoro e destrutturazione abrasiva della forma canzone pop. Ciò che ha sancito il successo dei newyorkesi No Age è la capacità di operare un ripescaggio creativo, e quindi non semplicemente calligrafico, di circa 40 anni di incessante disgregazione sonica. In “nouns”, loro precedente release, inglobavano una purissima anima pop madreperlacea in un magma di suggestioni atmosferiche e convulsioni nevrotiche. Difficile dire se sia il rumore a sgorgare dalla melodia o viceversa, laddove convivono avvinghiati in un abbraccio bruciante new wave e new york dolls, Ramones e afflati shoegaze.
Con “everything in between” i nostri approdano alla terza uscita discografica, quella che è comunemente ritenuta la più significativa della carriera di un artista, e lo fanno condensando in una alchimia più accessibile e lineare tutte le influenze che hanno lambito la loro musica. I brani si discostano abbastanza nettamente, dunque, dal tumulto di distorsioni corrosive e feedback lancinanti che caratterizzava i loro esordi, pur non rinunciando ad impatto, dirompenza ed un certo anelito trascendente. Se ciò, in meri termini di fruibilità, permette alla band di accattivarsi platee sempre più mainstream, è innegabile che la scrittura ne risenta, complessivamente. Canzoni come “common heat”, depurate di ogni rigurgito dissonante, rivelano tutta l’esilità strutturale della propria ossatura, risultando ben presto blande e monotone.
Per fortuna si tratta di casi isolati, essendo il materiale, mediamente, di livello abbastanza alto. D’altronde le influenze principali (mai così esplicite) basterebbero da sole a nobilitare gran parte del pezzi. L’opener “life prowler”, dall’andatura martellante e ossessiva, sommerge uno scanzonato ritornello bubblegum sotto una lieve colata di miele incandescente, nel solco dei Jesus & Mary Chain. “Fever dreaming” e i suoi isterismi a rotta di collo echeggiano i ramones e tutta la scena punk statunitense della fine dei ’70. La sconquassante frenesia garage-core di “Deplection” non può non ricordare gli husker du più urticanti, quelli di zen arcade e metal circus, mentre i baccanali lisergici dei velvet underground si agitano sotto il ritmo marziale e il riff portante di “sorts”, quasi un plagio spudorato dell’immarcescibile “sister ray”. Lo shoegaze e i my bloody valentine fanno capolino verso la metà del disco, nella nebulosa di folate ambientali, percussività tribale e bisbigli abulici di “skinned”, nei loop elettronici mesmerizzanti della breve strumentale “dusted” e nelle schitarrate in fluttuazione libera della splendida e atmosferica “positive trascend”.
Ciò che resta sono canzoni debitrici in egual misura dei sonic youth e dei nirvana, come “valley hump crash” e, sopratutto, “chem trails” (uno degli episodi migliori), ammantata di dolce irrequietezza adolescenziale.
L’impressione complessiva, nonostante qualche picco gradevolissimo, è che i No Age siano indecisi sulla strada da imprimere alla loro creatura. Non sempre il marasma di riferimenti è amalgamato a dovere, e qui e là si rimpiange l’ardore frastornante, estatico e tormentato al contempo, di nouns. Ci si augura solo che non perdano mai il loro punto di forza, la voglia di lanciarsi furiosamente contro un muro senza distogliere lo sguardo dalla punta delle scarpe.