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Ottobre 2010 | 4AD | deerhuntertheband |
Per chi conosce Badford Cox e i Deerhunter risulterà difficile concepire Halcyon Digest come quello che sembra, ovvero un punto di arrivo, il compimento di un’evoluzione. Ci sarebbe invece da attendere con curiosità la prossima mossa da menti così irrequiete ma con delle idee ben precise in testa. Ma Halcyon Digest è talmente bello che vale la pena non guardare troppo avanti. L’equilibrio dinamico che l’album raggiunge tra Musica Pelosa, neo-shoegazing e la canzone come ha preso forma negli anni ’90, tra sgranature lo-fi ed eccessi folk, è sufficientemente sopra le righe per non essere immediato e confondibile, ma abbastanza astratto da conservare un solletico intellettuale.
Dopo questo lavoro il sospetto inconfessabile che Badford Cox appartenga ad uno spicchio diverso della stessa luna di Sparklehorse diventa, oggi, una cognizione karmica.
L’inizio spiazza per un’istante, come riprendersi dalla sensazione che le pile del walkman siano scariche. Earthquake iniza narcolettica e nastreggiante, è un viaggio all’indietro e un salto all’indietro che è anche un inizio non può che essere soffice, quella morbidezza vaporosa tipica dei Deerhunter. Gli incastri retro sui diversi piani armonici, come in Revival, sezione ritmica 60ies, mandolino che riecheggia i concittadini Rem di Out Of Time, e distorsione grassissima, o Memory Boy in cui fa collidere dolcemente suoni da zampogna tarocca (mistura di tastiere e armonica a bocca?) con i Beatles, fanno rima con il ponte coast to coast in Desire Lines, che parte newyorkese, echi Sonic Youth, per finire dritta dritta in Brighten The Corners dei californiani Pavement, o in Fountain Stars che aggiunge ad un’incedere Velvet Underground un ritornello che suonerebbe di casa a Portland.
Il compassato incedere di alcuni brani scarni e lievi, è uno spruzzo di essenza da inalare per percepire appieno l’ebbrezza ossigenata di altri come Helicopter, con le sue aperture totali in melodie nitidissime, oppure la deliziosa Coronado con quel suo sax swingato che è orpello e nocciolo della canzone, per finire con la splendida He Would Have Laughed, un’intro di Baba O’Riley dilatata fino a confondersi con un blues del Mali e infine trasformarsi in un brano alla Jay Retard, appena scomparso cui la canzone è dedicata. Ogni brano ha il suo hook, il suo gancio che, girandoselo in bocca, non fa che sciogliersi in un’idea di musica illuminante e fresca.
Un album che è una caramella di quelle moderne, in cui la freschezza sta comunque sempre sotto uno strato di qualcosa, l’effetto balsamico non è l’involucro ma il cuore della faccenda. Una caramella che abbiamo ritrovato nella tasca di quella vecchia giacca che avevamo dimenticato di avere e abbiamo messo subito in bocca, senza pensarci, sperando non fosse naftalina.