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Giugno 2011 | Fod Records | MartiMusic |
Per Pochi Attimi
Arriva in Italia in ritardo di diversi mesi sull’uscita estera, tralaltro piuttosto “pesante”, in Germania ed Inghilterra, il secondo album dei Marti, genovesi ma ormai avvinti dalla loro stessa aurea internazionale, che va oltre al loro esprimersi in inglese. L’uscita è infatti, da considerarsi “pesante” perchè l’etichetta canadese ha messo a disposizione della band di Andrea Bruschi, attualmente residente a Berlino, una poderosa orchestra olandese (l’album è stato registrato ad Amsterdam), un produttore di mestiere come Bob Rose (in realtà d’adozione italiana, almeno lavorativamente) e un ospite dal curriculum interessante per impreziosire le cartelle stampa, come Clive Deamer, batterista che vanta collaborazioni con Portishead, Robert Plant e Radiohead, nonché “pesante” perchè già apprezzato dalla stampa estera.
Apprezzamenti e grandeur che qui possiamo solo confermare ed encomiare. Better Mistakes è un disco decisamente riuscito, di canzoni intense, in molti casi davvero notevoli per scrittura e drammaturgia, ed equilibri sofisticati e centrati che non indulgono nelle atmosfere in cui vorrebbero far credere di adagiarsi.
C’è poco da fare, si può girare intorno all’argomento ma di fatto esistono delle influenze e dei paradigmi su cui per semplicità si viene incanalati e più difficili da scrollarsi di dosso. Non fatico quindi a credere che chi conosce i Marti dal pur ottimo esordio Unmade Beds, voglia sapere, per prima cosa, quanto pensano stavolta Tindersticks e Nick Cave. Se l’equivoco per quanto riguarda la presunta influenza del rocker australiano è facilmente smentibile, diverso è il discorso per i Tindersticks con i quali il confronto è ancora dovuto, per alcune soluzioni vocali, per la condivisione di un simile universo cinematografico e certe radici comuni come è, inequivocabilmente, il filtro dell’arte di Scott Walker. Filtro attraverso il quale riusciamo però a riconoscere anche un debito indiretto a David Bowie. Una delle soluzioni più interessanti adottate come depistaggio verso queste ottuse riconoscibilità, nell’insieme di valorizzazione di molte idee poco scontate e piglio personale, è l’adozione di ritmiche e suoni afrocubani, sporadica ma sufficientemente trasversale per poter dare un tono all’album intero e virarlo dalla Nouvelle Vague ad atmosfere più hemingwayiane, alla “Acque del Sud” per rimanere al cinema. Ma Andrea Bruschi, che ha anche una avviata carriera d’attore, vanta una somiglianza spaventosa non con Humphrey Bogart ma con Gian Maria Volontè. E se rispetto al più grande attore italiano di sempre qui manca un senso del grottesco, il saper danzare appena sopra le righe, a vantaggio del suddetto equilibrio perfetto ma studiato, il pathos che i Marti sanno dare alle loro composizioni è davvero rara arte nostrana.
A suggello di questo excursus che è partito da un gelido respiro internazionale per finire ad accontentare il nostro vizio di riappropriarci idealmente dei nostri talenti, l’album si chiude con una versione di The Price We Pay, con testo italiano firmato da Francesco Bianconi dei Baustelle, reintitolata “Per Pochi Attimi”. Si schiudono così i rimandi a Tenco ed Endrigo, su quei territori stanchi su cui s’è mosso anche Mauro Ermanno Giovanardi. Meglio tenerla in tasca l’Italia, come un passaporto, o come un santino dimenticato tra le pagine di un libro che i Marti hanno finito di leggere da un pezzo.