Bill Ryder Jones – If…

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15 Novembre 2011 Domino myspace.com/billryderjones

The Lemon Trees (Part Two)

Un certo ragazzo inglese ha suonato con i Coral per degli anni, cinque album e più di qualche soddisfazione; ora però sembra si sia appassionato alle colonne sonore, ladies and gentlemen. Il suo malinconico estro ha deciso di arrischiarsi in un campo nel quale negli ultimi anni molto si sta movendo. L’esperienza di Danger Mouse e Luppi, che imbastiscono una colonna sonora che trascende il film, o le frequenti scorribande di Greenwood l’avranno forse invogliato a sfidare un nuovo cliché del pop che guarda alla classica.

Perché infatti non musicare un libro? E’ il nostro Calvino, con Se una notte di inverno un viaggiatore…, ad ispirare l’album di Bill Ryder Jones. E se l’idea non può che stuzzicarci, sentiamo già la porosità della carta frusciare sotto le dita, pure si deve ammettere che l’operazione a Billy è  riuscita solo a metà. Le orchestrazioni sono ampie e a tratti raggiungono una buona densità e inventiva, ma più spesso è la ricerca dell’effetto a prendergli la mano. Calvino propone una riflessione, uno struggimento metaletterario e un’avventura nel meccanismo stesso della fantasia, il nostro lo legge invece come un film romantico in cui enfatici campi lunghi si distendono secondo la logica degli archi e del pianoforte che, con qualche ingenuità, mitiga l’ampollosità della scrittura col suo camerismo scarno. Le cose vanno decisamente meglio quando entrano le chitarre, con brevi tocchi Talk Talk, e quando il nostro sembra ibridare la forma canzone d’ascendenza post rock con un contesto non suo la terra trema davvero.

Le Grand Disordre è una ballata chitarristica docile e però fiammante, come nei migliori momenti dei Dakota Suite, ed è la vera perla del disco: qui la reiterazione non è un punto debole, una gabbia da spezzare con epicità orchestrali, piuttosto sembra la vera chiave di una densa intimità col testo e con la vita delle parole e dei paesaggi da evocare ad ogni passo.

Nel viaggio invernale del nostro ci stupiamo di un’improvvisa virata con acidità psichedeliche in assetto antisommossa casalinga, e certo vi sono i fasti di una Intersect  ispirata, in cui da una frase delicatamente variata si costruisce con autorevolezza una melodia d’ampio respiro. La ricetta è quella della ripetizione e relativa variazione, lì dove i temi si stratificano e gli archi di Liverpool giungono ad esprimere un vero, ampio afflato romantico a partire dal sommesso fraseggio iniziale. Peccato però per il finale scontato nell’apoteosi.

A noi piace ripensare ad Elgar, alle suite per violoncello di Britten e di Bach, al romanticismo maturo di Brahms e alle colonne sonore d’alta scuola in cui tutto questo si saccheggiava o si citava rispettosamente, ma simili magie accadono di rado. E’ piuttosto la sensazione del film, dell’immagine che manca e non può sostituire la pagina, a farla da padrone. Insomma, gli suggeriamo di riascoltare le ipnosi cinematiche degli Hood e di imbracciare la chitarra, perché il talento nella scrittura è evidente ma andrebbe messo al servizio della forma canzone,  per non obbligarci a pensare al Signore degli anelli block buster mentre dovremmo lasciarci pervadere da Calvino e dai paesaggi inglesi secondo Turner.

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