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27/05/2014 | Jagjaguwar.com | SharonVanEtten.com |
“And then you disappear
because you can’t fight fear”
(I Know; Sharon Van Etten)
L’altra sera – una delle troppe sere in cui a migliaia postavano narcisistiche foto di limonate sotto i palchi del Primavera Sound Festival – io non facevo nulla. Forse studiavo, ovvero non facevo nulla. Se non fosse che molto tardi mi accorgo della possibilità di seguire le varie esibizioni che si stavano tenendo a Barcellona su internet, e allora mi connetto per vedermi il solito meraviglioso baccanale gentilmente offerto dai The National – che poi non ho più guardato perché mi sono addormentato. Insomma, arrivo sul sito del Primavera, premo play, e mi ritrovo a ammirare lo spettacolo di una ragazza americana, dal viso dolcissimo, capelli neri all’altezza delle spalle, e tra le braccia una chitarra, che suonava con la stessa delicatezza con quale si può disfare un soffione. Stava sul palco e a un certo punto presenta un pezzo che si chiama Break Me, che in alcuni versi parla dello scrivere canzoni e di un misterioso lui; poi scopro che la ragazza per sei anni ha composto musica di nascosto perché il suo fidanzato credeva lei non avesse alcun talento. Ripenso allora al titolo della canzone, Break Me, e quasi mi viene su un’istinto paterno, una voglia incolmabile di proteggerla: ed esattamente per questo motivo, tutta la recensione è in prima persona, perché è diventata una questione privata, intima.
Il giorno dopo decido di approfondire la discografia di questa cantautrice, ascolto il suo ultimo album – quello del quale (non) stiamo parlando qui – e Tramp, quella meraviglia uscita nel 2012. Ormai posso dire di conoscerla bene, lei. Sharon è una persona con un grande cuore, un grande cuore infranto, un’immensa sensibilità, una intrigante fragilità, nonché una ricca dote musicale. Are We There, diciamocelo, non è un gran disco: è un disco bello, quel classico disco che magari inizialmente ti annoia, ma poi inizi ad apprezzare nonostante vengano in superficie mille difetti. Primo dei quali la ripetitività. Eppure no, non ce la faccio a parlarne male. Soprattutto dopo aver visto la sua performance al Later… with Jools Holland, dove ha eseguito il brano I Know: un brano perfetto, un pezzo che ancora non riesco a crederci, un live che ancora guardo tutti i giorni, che non scoppio a piangere non so perché, che se non so più scrivere è tutta colpa sua, che trovare le parole mi riesce davvero difficile, che quasi scrivo come Guido Catalano; un pezzo che dice: I sing about my fear and love and what it brings, e che davvero non servono altre parole. È tutto lì, è bello, è infinito, è circolare, è fragile. Il resto del disco passa in sottofondo, è una minuscola cornice, un percorso che porta a quel pezzo, la croce sopra la collina.
Sharon Van Etten è uno di quei fenomeni rari: una musica, un volto. Un’identificazione totale, indimenticabile. E in questi casi parlare di musica diventa impossibile, perché le persone non si riescono a catalogare, perché le persone sfuggono, si nascondono, perché prima che le si possa capire ci vogliono mille altre vite, e perché le loro note sono cose che gli appartengono, un secondo linguaggio; e io non me la sento in questi casi di scindere musica e autore: lo ritengo inutile e controproducente. Le persone, anche quelle brutte, vanno conosciute, perché fanno parte di uno spettacolo immenso: il nostro stesso spettacolo. E questa non vuole essere una conclusione sbrigativa, e tantomeno semplicistica; al contrario, credo di esserci arrivato con una certa complessità.
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