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07/04/2014 | City Slang | thefuturesvoid.net |
Rumore bianco. Bruscamente interrotto da una vibrazione a bassa frequenza. Eccolo il manifesto artistico di Erika M. Anderson: che la giovane cantautrice americana fosse una sostenitrice del rumore applicato alla musica lo si era già capito dal suo precedente e brillante esordio, Pastlife Martyred Saints, in cui era riuscita sapientemente a coniugare minimalismo folk e distorsioni prese direttamente dai sonici anni 90. Con il suo ultimo album, The Future’s Void, ribadisce il concetto e va ancora più giù, negli abissi della propria anima, seguendo idealmente le tracce di chi negli anni 90 dello scorso secolo rinnegava il proprio presente, che non è poi molto diverso da quello odierno. Il futuro citato nel titolo non è quello che deve venire, ma quello della science fiction distopica dei decenni passati, che sotto molti aspetti è diventato presente e realtà davanti ai nostri occhi.
L’inquietudine e la frustrazione di Erika non si sono attenuate, e non poteva essere altrimenti: nei dieci brani di questo disco c’è tutto il disincanto e l’impotenza di chi vive questi anni in cui la tecnologia si fa sempre più invasiva nelle vite di tutti, sotto forma di legami-simulacro attraverso il social web, che allontana e crea relazioni sempre più evanescenti lasciando in preda a una solitudine concreta, cantata nella toccante 3Jane (feel like i blew my soul out/across the interwebs and streams/it was a million pieces/of silver and i watched them gleam/ it left a hole so big inside of me/and i get terrified that/i will never get it back to me/i guess it’s just a modern disease); in cui il culto dell’ostentazione della propria immagine, patinata e fintamente sorridente, si fa largo con prepotenza (da Neuromancer: you’re makin a living off of takin selfies/is that the way that you want it to be?/it’s such a narcissistic baby/it’s such a new millennial baby E da So Blonde: so lemme tell you bout this girl I know/her pills are shakin in her bag/her eyes the storm of all the things (th)at(‘s) (sch)cool/until Calvin gets her restrained) e l’unica (e forse neanche reale) empatia che si riesce a provare è per la prematura morte di una celebrità (when you found out it was over/tell me what you wanna see/when you click/on the link/of the dead celebrity/yes it’s true you/never knew you/but I seen you on the screen, da Dead Celebrity).
Grazie anche all’ottimo lavoro di produzione del fido Leif Shackelford, the Future’s Void è un lavoro molto più composito a livello sonoro di quanto non fosse il precedente, ed in cui in generale prevale la cupezza e la mestizia: si passa dalle strizzate d’occhio all’elettronica dark degli anni 80 e industrial dei 90 (Satellites, Chtulu, Smoulder, Solace) a brani più minimali e intimisti (So Blonde, 3Jane, When She Comes, 100 years) e a qualche sperimentazione, come il ritmo tribale di Neuromancer, chiaro riferimento al romanzo cyberpunk di William Gibson, e la dolceamara marcia funebre di Dead Celebrity, con tanto di finale con sottofondo di fuochi d’artificio.
In tutto questo EMA offre delle prove vocali decisamente impeccabili, oltre che emotivamente autentiche: la rabbia, il dolore, la dolcezza, il disincanto sono tangibili, palpabili; scuotono e scardinano l’apatia e la disillusione che questi tempi hanno subdolamente instillato.
In un presente/futuro vuoto in cui il pop di plastica torna con forza alla carica servendosi come braccio armato delle trasmissioni modello X-Factor, che propongono la vocalità unicamente come un fine (per vendere) e non come mezzo per esprimersi, farsi accarezzare e graffiare da questa carismatica ragazza del midwest americano quindi non può che essere, per i dissidenti dell’attuale regime dello showbusiness (e tout court dell’attuale modello sociale), la migliore delle alternative musicali.
[schema type=”review” name=”EMA – The Future’s Void” author=”Marcello Aloè” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]