Teleman – Breakfast

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Breakfast è un disco pudicamente pedopornografico, inconsciamente stimolante come la prima partita a Twister durante l’agognato pigiama party della tua migliore amica. Lei a tredici anni ha già abbondantemente sviluppato, e tu, dopo aver misurato con stupore quel progresso centimetro per centimetro, non potevi sperare in una migliore situazione per incastrarsi come in un appassionato Tetris, che una falsamente innocente partita a Twister: anche solo per sfiorarle la mano quando quell’altra amica, quella più cozza seduta sul divano a gambe incrociate, avrebbe urlato due volte di fila Mano destra sul rosso! (Ovviamente diamo per scontato che per entrare in questa festa molto rosa e elitaria, dal profumo preponderante di violette e alcool per smacchiarsi le unghie, sei stato costretto a spacciarti per omosessuale: è un classico.)

Riteniamo che questo disco non lo si possa riassumere diversamente: è semplice, diretto, adolescenziale, colorato. Più o meno suscita la stessa sensazione di freschezza della quale fecero un proprio vanto nell’estate scorsa i Django Django. È uno stare tra Thao With The Get Down Stay Down e gli XX, mantenendo dei primi l’impatto rollercoaster e perdendo dei secondi quella angosciante malinconia e lentezza… perché cavolo questo è il tempo di appassionarsi a Tex, a Dylan Dog, o al massimo Ratman, non di certo a Sartre. Ecco, ci siamo: i Teleman sono tipo degli XX che nel backstage guardano le repliche di Hamtaro canticchiando e con quel musino poi… conquisti tutti lo sai.

In quanto album brit-pop contemporaneo – non a caso la produzione è stata affidata a Bernard Butler dei Suede – ogni pezzo è un potentissimo singolo, una potenza che si sdoppia: da una parte abbiamo una durezza quasi psych, come quella della ghost-track dietro Travel Song; dall’altra l’efficacia, quella capacità di essere fottutamente catchy, conservando allo stesso tempo l’orgoglio di suonare un pop edulcorato dai synth anni novanta che entra e non si sa più quando esce. Basta ascoltare 23 Floors Up per rendersene conto, già un classico pop in pieno stile Pulp; per non parlare di Redhead Saturday, che sembra azzardare anche dei riferimenti a certa musica celtica.

Siamo di fronte quindi a un ottimo disco che purtroppo pecca di eternità. Breve e trasognato come come l’essere adolescente: è proprio su questa base che possiamo giustificare il suo sopracitato difetto. Perché il tempo delle mele è quello in cui sbagliare è obbligatorio, no?

P.S. Dio benedica Twister e la pubertà!
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