Merchandise – After The End

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I Merchandise possono ricordare quel tipo di giocatore di college basket che se solo decidesse di uscire anticipatamente dal college, troverebbe al volo una squadra NBA pronta a pescarlo al primo giro del draft. Ma, appunto, esiste un modello di giocatore che sceglie comunque di farsi tutto il suo benedetto college e poi spiccare il salto quando si sente più che pronto. In genere quel tipo di giocatore ha le carte per suscitare una certa stima. E i Merchandise ci piacevano già quando erano meno pronti, figuriamoci adesso. Hanno aspettato fino ad ora per uscire con il primo album lungo, dopo gli ottimi EP adatti a non spendere subito tutti i crediti che NME aveva assegnato a questo gruppo di Tampa. I Merchandise sono stati etichettati presto come una band che odora di Smiths in modo onesto, secondo molti per la vocalità e il tratto epico del cantante.

Ma può anche essere che Carson Cox sia in fondo un dignitosissimo Chris Isaak aggiornato e magari corretto. Piuttosto, ciò che rimanda meravigliosamente agli Smiths sono le trame di chitarre. Volendo azzardare, si può affermare che certi giri se la potrebbero giocare ai rigori con quelli di sua maestà Johnny Marr. Little Killer, Enemy, Telephone sono esempi di un pop sontuoso che mette per ora in standby i guizzi più appuntiti e tumultuosi che emergevano dal materiale precedente. Quelli di After The End sono pezzi costruiti con l’attenzione di chi non sta bene se tutto non torna come deve tornare. Non parliamo di produzione ma proprio di strutture delle canzoni e di incastri millimetrici. Cose che oggigiorno fanno loro, i Wild Beasts e pochissimi altri. Certo, a onor del vero, il finale di questo disco è abbastanza calante, con un tris di tracce medio lente e ben al di sotto di uno standard altrimenti altissimo, ma questo è davvero l’ultimo dei problemi. E poi, ricordiamolo, gli Spurs hanno scelto Tim Duncan solo quando ha finito il college e da lì in poi è stato tutto uno spettacolo.