Edda – Stavolta come mi ammazzerai?

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Dicono che la prima volta non si scorda mai. E hanno ragione. Il rock alternativo italiano ha già avuto le sue prime volte. Sfolgoranti. Mai più ripetute. Tipica conversazione fra amici : “Hai sentito l’ultimo degli After?” “L’ho sentito. Interessante. Ma i primi erano un’altra cosa. Vuoi mettere con Germi?” “Hai sentito Wow dei Verdena?” “L’ho sentito. Bah. Vuoi mettere con Valvonauta?” “E l’ultimo dei Marlene?” “Ma vuoi mettere con Catartica?” “Allora l’ultimo di Fiumani” “Ma per carità. Vuoi mettere con Siberia?”. “Fantasma dei Baustelle!” Non risponde e se ne va, canticchiando: “E adesso mi manchi te lo giuro, oh”.

Duole ammetterlo, ma salvo alcuni episodi, il rock alternativo italiano ha perso colpi. E non solo per colpa dei veterani. Anche da parte delle nuove leve, di opere potenti se ne sentono poche. E allora succede che persino uno come me, che negli anni ’90 andava alle elementari, finisca col rimpiangere quel periodo: Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Subsonica, Bluvertigo, Prozac+, Ritmo Tribale, Scisma, Super B. No vabbé. Magari i Super B no. Spero però d’aver reso l’idea. Forse è davvero tutto finito. Forse il meglio c’è già stato. All’orizzonte solo esordienti un po’ anonimi, e veterani che hanno perso smalto. È la seconda volta che scrivo veterani. Manco fosse una guerra. E anche se lo fosse, sarebbe inutile combatterla. Oramai non c’è speranza. Il meglio è passato.

Qualche giorno dopo, incontro di nuovo il mio amico. E riparto all’attacco “Hai sentito l’ultimo di Edda?” La sua risposta mi coglie alla sprovvista: “L’ho sentito. È un capolavoro”. Più tardi torno a casa, e lo ascolto più volte. Aveva ragione. “Stavolta come mi ammazzerai” è il titolo del terzo album solista di Edda, al secolo Stefano Rampoldi, ex voce dei Ritmo Tribale, storico gruppo rock anni ’90, un po’ i nostri Jane’s addiction, anche se questo paragone potrà suonare banale. Un titolo che, come altri avranno già notato, cita una scena di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri. E vista la dissacrante e feroce auto-analisi operata dal cantante, che ci confessa ogni sorta di delitto immaginario, ma non solo, l’album potrebbe essere ribattezzato “Indagine su un cittadino additato da ogni sospetto”. Ad ogni modo, sono parole che presuppongono una nuova, e forse definitiva, rinascita per Edda, che pare anche si sia convertito all’induismo.

“Pater” dà inizio alle danze, e “Mater” le chiude. Dal seme alla terra, verrebbe da dire. Del resto per entrambi i titoli si è scelto, forse senza troppe elucubrazioni, il latino. Lingua morta, o sarebbe meglio dire “lingua zombi”, per eccellenza. Siamo infatti di fronte a un disco permeato, come pochi altri, di morte e di vita allo stesso tempo, e che non conosce filtri. Fin dal primo minuto capiamo che si è aperto uno spiraglio su una psiche che infrange ogni forma di auto-censura, giocando con i propri demoni. Il poeta, è veramente il caso di dirlo, usa un linguaggio estremo, che non fa sconti a nessuno, tantomeno a sé stesso. Ne sentiremo di tutti i colori, soprattutto vocali. Fra parricidi, stupri, scambi d’identità sessuale, dipendenze e conflitti insanabili, Edda riporta nel cantautorato italiano il mondo della verità. E poco importa se sul finale ci dichiara il contrario, dicendo che “chi dice la verità non può chiamarsi Rampoldi”, perché la sua è una verità controversa, fatta d’amore e di odio, di fantasie, di menzogne, e d’innumerevoli sfumature di follia. Non di grigio, mi raccomando. Di follia. Nella bara di ogni brano riposa uno scheletro la cui conformazione ossea ricorda Battisti, Ivan Graziani, e non ultimo Manuel Agnelli. Ma i versi di Edda sono talmente crudi e visionari, e la sua interpretazione talmente coraggiosa, che fare un vero confronto con altri sarebbe un torto imperdonabile. Diamo a Edda quel che è di Edda.

Mentre gli arrangiamenti fanno di tutto per arricchire e diversificare le strimpellate punk del Rampoldi, l’autore semina melodie killer come non ci fosse un domani, e aggiungo per fortuna. Il fatto che pezzi così accattivanti(Pater, Coniglio Rosa, Bellissima) presentino liriche tanto scabrose, crea un effetto straniante, che si ripercuote sulla concezione vigliacca e noiosa, per non dire moralista, che abbiamo dello scrivere testi. Si può essere pop anche senza cantare storie banali, o edificanti. Si può essere pop anche dando voce al proprio delirio. E gli standard radiofonici? Quisquilie e pinzillacchere, dato che sono giorni che in testa mi canto:”Hare-hare-hare-hare, che famiglia di dannati!”(Coniglio Rosa). È innegabile l’omaggio, e insieme l’irrisione rivolta a certe icone dell’immaginario collettivo da centro commerciale (Yamamay, Peppa Pig, tranquilli, le due canzoni non parlano né della Yamamay né di Peppa Pig), e di quello musicale (Peppino di Capri, Riccardo Cocciante), ma l’ironia è solo uno dei tanti tasselli che vanno a comporre questo affascinante mosaico di vite vissute. Tutta dalla stessa persona. E ambientate tutte nella stessa famiglia. Più che un mosaico, una foto in bianco e nero, in cui è ritratto un tenero bimbo sul quale è puntata, perturbante, una freccia di nome Edda.

C’è poco da fare. “Stavolta come mi ammazzerai” arriva come un fulmine a ciel sereno, anche se di ciel sereno non v’è parvenza, in quest’ennesima annata italica un po’ sonnacchiosa. Il giusto risarcimento dopo tanti anni di oblio. Intendo il nostro, non quello di Edda. L’atto dirompente di un cinquantenne in stato di grazia. Un artista fuori dal comune, perfettamente consapevole della propria diversità “Ciao, sono Edda. Questo lo so. È un problema aggiunto a quelli che non ho”. (Bellissima) Per quanto mi riguarda, il capolavoro italiano del 2014, di diverse spanne al di sopra della concorrenza. Inoltre, solo per concludere, credo segni un altro record: è infatti forse il primo disco al mondo in cui viene pronunciata la parola “Verdena”.

[schema type=”review” name=”Edda – Stavolta come mi ammazzerai” author=”Marco Tucciarone” user_review=”5″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]