Dopethrone – Hochelaga

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C’era una volta il Roadburn Festival, per l’esattezza l’edizione del 2012. In un padiglione, chiamato “Au-delà du Réel”, gestito dalla direzione artistica dei Voivod, (i quali, per l’occasione risuonarono per intero il loro Dimension Hatröss), furono chiamati gli Aun e i Dopethrone ad aprire le lente danze ai famosi thrasher in quello che diventò, a tutti gli effetti, una succursale canadese.

I Dopethrone quindi diventarono subito famosi agli ascoltatori doom-sludge che frequentarono il festival (ma erano già conosciuti ai fan più oltranzisti del genere) e si incastrarono perfettamente in quel revival stoner-psych-groove-metal che rivendicava le proprie origini fatte di pane, Black Sabbath, Motörhead, il mondo psychedelic-rock degli anni ’60-‘70 dei Grateful Dead e degli Hawkwind. Questo fortunatissimo mash-up, ora cresciuto nel florido mondo del doom metal, arricchisce il proprio puzzle con i cupi fumi lisergici dei Kyuss, degli Electric Wizard o dei Bigelf ; si guarda alle arti visuali più magiche dei poster vintage degli anni ’70, alle donne sinuose dark ed esotiche dai tratti ancora art-noveau ma inserite in un contesto da congrega di streghe neopagane.

Che i Dopethrone prendano nome dal fortunatissimo album degli Electric Wizard questo è un dato di fatto, ma basta dare una rapida scorsa visiva alle copertine degli album per capire in quale microcosmo si sono recintati. Il primo logo, di spudorata quanto tributaristica eredità Venomiana, richiama l’amore per un certo Blackmetal old-school che ancora si può udire nelle urla graffianti di Vincent. Mentre, lo scripting degli album successivi rimanda chiaramente a quel sovracitato mondo psichedelico, ormai votato all’occultismo più oscuro e magico.

Musicalmente ci troviamo di fronte ad un coerente connubio estrapolato dalle chitarre di Tony Iommi e Jus Oborn, potenziato nei fuzz e sulle basse tonalità. Potente e deciso il basso, che ci fa sprofondare nel fango più lercio ad ogni rintocco. Attimi groove e vagamente Heavy (sempre in un’accezione lenta e Stoner-Doom) emergono in “Vagabong” e in “Scum Fuck Blues” che vanno a riempire le ultime caselle utili a completare il ricchissimo ma spesso monotono panorama stoner: il Blues più dannato e la Southern music.

Hochelaga riflette perfettamente un mondo che gli amanti dello Stoner amano e continuano a volere: un universo fatto di tante piccole repliche e di altrettanto minime variazioni stilistiche all’interno di un panorama prettamente identico. Iconograficamente suadente e allettante, grazie alla lentezza esecutiva insita nel genere, l’album rimane ancorato ai suoi ideali, pesanti come macigni. Qualcosa si muove, qualcos’altro si muoverà in futuro, ma non saranno i Dopethrone a farlo, non ancora.  Perfettamente a loro agio nel rimanere in mezzo a questo mare magnum di immobili icone.