Anti-Flag – American Spring

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Sul volto della Primavera Araba è spuntato un fiore. Il fiore della Primavera Americana. Il seme ce l’hanno messo gli Anti-flag. E di conseguenza, su ogni petalo c’è uno slogan. Il solito fottutissimo slogan. Signore e signori, ecco a voi “American Spring“! Quanta nostalgia, ascoltando gli Anti-Flag! Quanta nostalgia dei bei dischi punk di una volta! Quanta nostalgia di quando chi scrive nemmeno era nato!

La band di Justin Sane e Pat Thetic (questi i loro simpatici pseudonimi) sforna l’ottavo canto del cigno, direttamente dall’Obitorio della Musica Punk, che qui viene torturata e uccisa a suon di frasi retoriche, voci pompose che neanche Kekko dei Modà, scariche di power-chords, e un tasso di ottuso testosterone secondo solo a band come i Papa Roach, che giocheranno anche in un altro campionato, ma che condividono con gli Anti-Flag, e con una band inabissatasi nella cronaca nera come i Lostprophets, la stessa passione per l’ipervitaminica Americo-Poiesi della canzone rock.
Difficile distinguere una canzone dall’altra, impossibile dire quale sia la più brutta. Ah già, nel singolo “Brandenburg Gate” c’è ospite Tim Armstrong dei Rancid, se la cosa può consolare qualcuno. Non certo il sottoscritto.

Detto ciò, non resta che constatare quanto ormai il punk-rock tardo adolescenziale faccia fatica a rigenerarsi, perso nel mare aperto dell’età adulta, senza più niente da offrire, a parte i soliti ritornelli che “spaccano“, e le solite strofe metricamente e liricamente risapute. Più che un disco, una prova di resistenza atletica, un elettro-pentagramma sotto sforzo. A chi piaceva prima, continuerà a piacere adesso. Finché il fisico regge.