Attitudine e Visual:
Un tuffo in un passato non così lontano, fatto di sudore, strepitii roventi, carne e rumore, quello al BlackOut di Roma. Un evento atteso dal pubblico, senza opener o backing band che dir si voglia, e che vede salire sul palco due gruppi, gli Uzeda e gli Shellac, depositari di un sound granitico, misurato e imprevisto al contempo. Gli Uzeda sono i primi a incendiare gli animi dei presenti con un’inclinazione viscerale e un fare dal sapore quotidiano. La voce di Giovanna Cacciola è nuda, feroce e graffiante, intimamente pulita e carica di inquietudine e libertà selvaggia. Cenere e polvere, distorsione e nevrosi, dissonanze e precisione, progressioni e rallentamenti, esplodono così sul palco, in una fusione piena tra vocalità e sezione ritmica, tra le ossessioni rullanti di Davide Oliveri, le compattezze ipnotiche del basso di Raffaele Gulisano e le metamorfosi chitarristiche di Agostino Tilotta. La tensione sanguinante di un uragano sonoro in piena degli Uzeda, col suo vortice incessante di misticismo e carica terrena, cede poi il passo agli Shellac. La triade Albini-Trainer-Weston, da sinistra a destra, sale sul palco ed è subito un muro di suono in perenne flusso, lacerante e penetrante, che sfocia in una tecnica accurata, in una furia calcolata, in un live set che alterna frastuoni calorosi ad estasi asciutte e reiterate. Todd Stanford Trainer martella la sua batteria con i suoi modi sempre molto coreografici e d’effetto; Bob Weston scalfisce il suo basso fondendosi alla potenza inarrestabile del sound complessivo; la chitarra di Steve Albini graffia impetuosa le orecchie, giocando con la sua voce cadenzata e sghemba. Un condensato di rabbia, tagli ritmici e monoliti granitici.
Audio:
Ottima resa audio con volumi puliti, mai eccessivi, ben calibrati e mai errati nei settaggi per un buon rendimento finale.
Setlist:
Gli Uzeda spingono sull’acceleratore con What I Meant When I Called Your Name, Gold, Camillo, This Heat dall’album del 2006 Stella. Gli Shellac alternano brani dal loro ultimo album Dude Incredible (All The Surveyors, Dude, Incredible, Compliant) ad altri tratti da Excellent Italian Greyhound (Steady As She Goes, The End Of Radio), da At Action Park (My Black Ass, Dog and Pony Show) e da 1000 Hurts (Prayer To God, Squirrel Song).
Momento Migliore:
L’intero evento: un lungo magma di suoni che sale dai sotterranei terrestri fino a colpire, come un pugno, la testa e le orecchie. What I Meant When I Called Your Name degli Uzeda e Prayer To God degli Shellac, col suo “Just fucking kill him!” da urlare a squarciagola.
Pubblico:
Nonostante i problemi organizzativi iniziali e il cambio di location, dall’Init al BlackOut, il sold out era annunciato. Ed è stata una lotta a suon di note, caldo e corpi sudati, tra dialoghi, spesso illogici, con il pubblico, pogo e crowdsurfing.
Locura:
La richiesta di domande da parte di Bob Weston al pubblico che risponde con toni coloriti tra l’ilarità dei presenti; il suo rifiuto di concedere un sorso d’acqua a un ragazzo in prima fila. Il siparietto di Steve Albini che grida “Hey, look at me, I’m a plane!”, immaginando di volare sugli astanti per spruzzare qualcosa (“shit”) sulle loro teste. Gag come queste, per gli affezionati della band, sono ormai un must.
Conclusioni:
Due live interminabili e intensi, con due band che si completano a vicenda, emanando un’energia innata. Un viaggio che è trasfigurazione di uno stile di vita, di uno spirito, di un’epoca. È il crepitio sonoro di un mondo di suoni che si oppone alla rimozione, di un’attitudine musicale che resiste con forza, carisma e integrità al tempo che passa.