Beach House – Depression Cherry

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Depression Cherry” è il ritorno alle origini dei Beach House. Un paio di passi indietro, una specie di retromarcia. Una manovra fatta in maniera consapevole dopo il successo degli ultimi “Teen Dream” e “Bloom”, durante la promozione dei quali, il duo del Maryland si è trovato spaesato. “Teen Dream” li stava portando verso una direzione ben chiara, svogliatamente melodrammatica, che ha fatto breccia nei cuori di tutti gli annoiati/innamorati del mondo indie – pronti a barattare un tenero bacio mattutino, con la morbida e opaca solitudine dell’album. “Bloom” tirò fuori la fresca primavera di questi soliloqui mattinieri, segnando perfino dei sorrisi nei visi di noialtri. Per i Beach House questo ha significato un successo planetario: certo, anch’esso desaturato, ovattato, gentile e delicato, ma pur sempre planetario. E tutto a un tratto si sono resi conto di trovarsi nel bel mezzo di qualcosa che avevano gestito e creato bene ma che, tutto sommato, non era quello che volevano.

Ecco perché con questo “Depression Cherry” i brani tornano ad essere un pochino più dilatati e sofferti, esattamente come quei due primi album su Carpark Records. Quelle microcomponenti di overdrive e di fuzz, che segnavano un certo rinnovamento in “Bloom”, ora sono state accantonate in favore di un songwriting più caldo e ancora più lineare. La drum-machine è stata ridisegnata per fungere da leggero tappeto in favore della strumentistica: pare infatti che la band abbia avuto una non piacevole esperienza nel doversi servire di un vero batterista nella promozione dell’ultimo album. Ma non per questioni o diverbi personali, semplicemente per una non ottimale gestione degli spazi, una sorta di agorafobia dalla quale ora vorrebbero rifuggire. Mentre gli organi, i clavicembali e le chitarre acustiche rintoccano leggeri attorno alla sempre suadente voce di Victoria, il dolce gioco delle coppie è sempre ben bilanciato: quando ella canta, una soffusa corte di pulviscolo aleggia attorno a lei, mentre quando si lascia andare in soffici gorgheggi, allora gli arpeggi si fanno più strutturali.

Non stiamo parlando di una rivoluzione sonora, eppure sono pochissimi i brani che possiamo ricollegare agli ultimissimi Beach House. Forse “PPP” e “Wildflower” risultano essere fra i più dinamici, per quanto il concetto di dinamismo possa assomigliare più ad un girotondo ad occhi chiusi.

Il nuovo lavoro rappresenta quindi un ritorno al controllo, in un luogo familiare e ben misurato. Il duo inoltre, ci tiene a corredare l’album con una serie di citazioni prese da scrittori o pensatori famosi. Tutte ruotano attorno al concetto di spazio e dell’invasione più o meno passiva che le persone attuano all’interno del nostro mondo.

«Non posso più restare qui. Momento per momento vado avanti. E il flusso del tempo che non si può fermare, non posso farci niente. Una carovana si ferma e un’altra riparte. Ci sono persone che potrò incontrare ancora, altre che non rivedrò più. Persone che passano senza che io me ne accorga, persone che incrocio appena. Man mano che li saluto, ho la sensazione che siano evanescenti. Devo vivere col fiume che mi scorre davanti agli occhi. » (Banana Yoshimoto)