Nient’altro Che Macerie – Hai Perso

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Segnali di fumo, più vicini che mai. Qualcosa sta bruciando, finalmente. Non è vero. Bruciava già da prima. Se non da sempre. Molti si girano dall’altra parte, facendo finta che non ci sia. Eppure continua, continua a bruciare.
Questo per dire, senza eccedere in piagnistei, che in Italia, malgrado il disinteresse dilagante, esistono, e resistono, dei veri e propri “movimenti alternativi”, che hanno fatto proprio il verbo musicale di altri – i gruppi storici dell’emocore in primis, vedi gli Embrace di Ian MacKaye, ma anche il sound di una band che era già
post-emocore come gli American Football –, trovando in esso l’abito sonoro più adatto per le proprie istanze espressive, o liriche se preferite. Badate bene, non parliamo di “copia e incolla”, ma di vera e propria italianizzazione, e rielaborazione, di un genere che non ci è mai appartenuto, almeno ufficialmente, e che oggi invece appare nostro come non mai. Ecco perché, non appena un gruppo si affaccia o si riaffaccia sulla scena, generalmente si chiamano in causa dapprima nomi come Verme o Fine Before You Came, e non quelli dei soliti paladini, o gruppi bandiera d’oltreoceano. È un processo lungo, che viene da lontano, che non nasce, ne finisce si spera, con “Hai perso“, l’ultimo Ep dei “Nient’altro che macerie“. Il terzo in ordine temporale.

Poco più di un quarto d’ora. Sei canzoni, sei fiammiferi per provare ad accendere un fuoco che nessuno vuol vedere. Si parte con “Facile“, ed è subito amarcord. O nostalgia del presente, come si usa dire da un po’. Un brano che custodisce, nell’arco dei suoi tre minuti, diverse intuizioni. Nella fattispecie, il sipario si apre su arpeggi minimali che per un attimo ci riportano a “Spiderland” degli Slint, così come lo spoken word, alternato ad urla sgraziate, più o meno melodiche, che lasciano intravedere sulle tonsille la sigla FBYC. Si comincia, insomma, da uno scontro dialettico. Uno scontro fra le suggestioni più astratte e quelle più concrete del dopo-hardcore. Vengono rievocati, nel primo minuto, i territori più cerebrali del genere, quelli che anni fa furono già visitati dai Meganoidi in piena metamorfosi di “And Then We Met Impero“. Poi però accade qualcosa. Dalla metà del primo brano, fino alla fine del disco, – che si conclude con “Ancora“, per chi scrive l’episodio più riuscito –, l’elemento umano cerca di riprendersi la scena, senza dare soluzioni, ma facendo avvertire la tensione del proprio gesto: il tentativo di salvare, fra le macerie del senso, del mondo, della propria vita, finanche del rock, una ragione per andare avanti. E magari, perché no, questa ragione potrebbe essere il gesto stesso.

Si è persa un po’ dell’irruenza di “Circostanze”, il loro esordio datato 2012. Ma non è necessariamente un male.
Si può dire, infatti, che il tessuto sonoro sia progredito verso un’ulteriore complessità, senza per questo risultare lezioso. Le singole parti suonano più curate. La voce più composta, più intonata, ma non meno ispirata. Nell’insieme, un botta e risposta fulmineo – anche troppo, quasi sulla scia degli “Altro” –, fra simulacri del passato e del presente, che stritola nel suo pugno il biglietto d’entrata per un domani già scritto. Ed è proprio in questo rimpallo serrato fra le algide disgregazioni di certo post-hardcore e la rabbia catartica dell’emocore, forse, il lascito più importante del disco. Una sintesi di rara brevità che oscilla, come anche i testi, fra le macerie della struttura e la ricerca di una nuova identità, sulla linea che separa il crepuscolo da un’eventuale, possibile Aurora. Un disco di soglia, insomma. Davvero figlio di quest’epoca.