Explosions in the Sky – The Wilderness

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La longevità creativa, il continuo afflusso di petrolio nelle macchine dell’innovazione, non è cosa sulla quale basare il proprio credo se si parla di post-rock. In questo sottogenere si sopravvive come luci a intermittenza, e tra un bagliore e l’altro può passare un’intera carriera – in quel caso si dovrebbe parlare di post-mortem, per essere sempre accurati con le categorizzazioni. Forse fare riferimento a formazioni come 65daysofstatic o This Will Destroy You rende il discorso più chiaro. Cosa c’è oltre a Radio Protector per i primi, e The Mighty Rio Grande per i secondi? Non molto. Lo strascico di una visione musicale, di un percorso che proprio in quel preciso brano trova il suo apice. Ciò che viene prima è allenamento; ciò che viene dopo è allontanamento. «È tutto, potete andare» concluderebbe Zanzotto.

Gli Explosions in the Sky hanno corso questo rischio, se prendiamo come un singolo movimento il galoppo nevoso di The Earth is not a Cold Dead Place. Il rischio di costruirsi una gabbia di cristallo, La Cage aux Folles di Warren Techentin in notazione musicale, ed esservi prigionieri. Sicuramente Take Care, Take Care, Take Care rimarrà per la sua parte vocale unica nella discografia degli esplosivi, esattamente come di tale culto sopravviverà il movimento The Sad Mafioso nel brano East Hastings dei Godspeed You! Black Emperor. Ma al di là di Trembling Hands il disco si presentava fragile, rimanendo luminoso solo in alcuni sparuti momenti (su tutti Postcard From 1952). Dopo la mano registica di Peter Simonite e Annie Gunn, comunque, passano cinque anni prima che il quartetto in grado di portare bianca frescura in Texas possa tornare in studio, non più alle prese con colonne sonore; nelle mani e nelle gambe, nelle chitarre e negli occhi, The Wilderness.

C’è un cambio nella cabina di regia, si potrebbe dire – e pensare per immagini non è mai sbagliato se si ha a che fare con musica evocativa, ologrammica. Si salta da Malick (presenza corroborata dal curriculum di Simonite) e le sue esplorazioni geografico-filosofiche al futuristico spazio ideato da Duncan Jones. Il passaggio è determinato da una ispirata capacità compositiva. Le vecchie strutture ad esplosione lasciano il passo a un lento incedere paradossalmente statico. Una nuova complessità stimolata forse dalle direzioni elettroniche percorse nelle recenti collaborazioni, a nome Inventions, tra Mark T. Smith e Matthew Cooper (Eluvium).

Fattore determinante del successo – che qui constatiamo e prevediamo – di questo disco, si diceva, consiste nel ruolo, tutt’altro che ancillare, delle intromissioni elettroniche (o simil-elettroniche); le quali, infatti, non accompagnano strutture già stabilite, ma danno nuova forma. Per dire, è come il gioco di filtri e lenti utilizzato in Madre e Figlio – film del russo Sokurov – dove ogni piega estetica che ne risulta è determinante nella narrazione: ideazione, progettazione, creazione e fruizione. Non un’aggiunta a posteriori.

Quello che musicalmente appare in struttura è un assetto ambient, da un lato cullato (Wilderness), da un lato scosso (Disintegration Anxiety), o ancora compromesso (Logic of a Dream). Inutile dire che dopo i primi trenta secondi del disco uno si aspetterebbe l’entrata in scena del poeta dell’alveare, ovvero David Sylvian, e altrettanto scontata sarebbe la compagnia di Christian Fennesz. O è forse Tim Hecker quello più somigliante e influente in questa landa desolata, come da titolo? Ma, senza ideare troppe collaborazioni affascinanti, possiamo concludere, con una sorta di détournement situazionista: «È tutto, potete tornare».