White Lung – Paradise

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Cosa sarebbe successo ai Blondie se si fossero formati su Bandcamp e non al CBGB? I White Lung sembrano darci un’elettrica risposta. Sarebbe successo questo: la scrittura di un album come Paradise. Sappiamo quanto i White Lung non sopportino essere associati ad altri gruppi delle scene musicali passate, ma questo nostro giudizio non vuole essere negativo. Anzi, è la conferma di una contemporaneità prima irraggiungibile. Va anche aggiunto che contenutisticamente, a livello lirico, tra i prodotti dei gruppi qui citati ci sono distanze davvero poco colmabili. Bisognerebbe aggiungere un elemento di congiunzione nel mezzo. Per rispetto ai ragazzi di Vancouver non lo faremo. 

La parola sulla quale soffermarsi compare poco sopra: contemporaneità. Questa è la necessita dei nuovi White Lung: non suonare mai come altri, non suonare come sé stessi, ma suonare. Per farlo si sono affidati ad un produttore di tutto rispetto, ovvero Lars Stalfors (HEALTH, Cold War Kids, qualche lavoro con Chelsea Wolfe). Scelta fatta dal gruppo dopo aver decretato che una personalità come Lars era l’unica in grado di dare una voce fresca, brillante, frizzante alle parole di Mish Way, la cantante del gruppo.

We worked really hard to make sure there were new sounds in every song that set them apart from each other, so we worked with a lot of pedals and software to mangle some of the guitar tracks into something that sounds more like synths.

Il risultato sicuramente corrisponde a quella che era la volontà del gruppo: un disco dove ci sono sintetizzatori fantasma ma in realtà sono chitarre. Come rispondono a un loro fan che gli chiede cosa sia andato storto nella registrazione degli strumenti che in realtà non sono mai stati registrati: nothing wrong with them, saw people talking about keyboards on the songs though and it is only guitars.

Il risultato è un disco teso, tirato a lucido. Inaspettato. La direzione presa dai White Lung non risponde più alle nostre necessità, se non parzialmente. A questo punto non si capisce bene se sia Lars, se sia la Domino, o la volontà della stessa Mish Way, fatto sta che finiamo a rimpiangere – magari parzialmente – i 19 minuti di Sorry. La voce del gruppo, in una chiacchierata con Annie Clark (St. Vincent), grande ascoltatrice dei nostri, prova a dirci che si tratta solo di crescita e che nessuno si dovrebbe permettere di dire nulla a un musicista punk quando inizia a conoscere le regole dell’universo armonico.

There’s this really stupid attitude that only punks have where it’s somehow uncool to become a better songwriter. In no other musical genre are your fans going to drop you when you start progressing. That would be like parents being disappointed in their child for graduating from kindergarten to the first grade. Paradise is the best song writing we have ever done, and I expect the next record to be the same. I have no interest in staying in kindergarten.

È un punto assolutamente condivisibile, per quanto sia nei dogmi – che noi non sottoscriviamo – del punk, quello di essere incompetenti. Eppure Paradise in cuffia evoca una collaborazione tra Paramore e Debbie Harry. Non è un’immagine che uno si augurerebbe di avere in mente mentre ascolta uno dei gruppi più citati della scena revival punk. Attenzione, però: Paradise è un buon disco. Non si tratta di schizofrenia. È un disco veloce, dinamico, ben strutturato. Semplicemente non è un album che dovrebbe appartenere ala discografia di un gruppo come i White Lung. C’è una cosa che però ci fa ben sperare, anzi due. Anzi, una ci fa ben sperare, una dà soddisfazioni istantanee. Un disco come questo non può essere ripetuto, nel bene e nel male; e sicuramente farlo non è nelle intenzioni di un gruppo che non ammette di ripetersi nemmeno tra un pezzo e l’altro. Mentre Sorry e Deep Fantasy sono due dischi collegabili, all’interno di uno è possibile rintracciare i semi del secondo, così non sarà per Paradise e ciò che verrà. Questo è il trampolino di lancio verso produzioni inaspettate. Più pop, certo. Ma sarà un pop maggiormente controllato. Qui, invece, rimane sbranato, vittima di parole e tempi claustrofobici (anche qui non si supera la mezzora di musica). Più o meno è come quando cominci una maratona decidendo di fermarti al primo traguardo, quello per i meno prestanti fisicamente; ma poi, senza rendertene conto, segui il vortice futurista delle gambe, e ti ritrovi con gli altri – più affaticato – a terminare il giro completo. Ecco, i White Lung, hanno intrapreso una strada difficile, fatta molto probabilmente di compromessi tutt’altro che sintonici tra generi. Se si fermano a Paradise, questo potrebbe essere il loro fallimento. Se invece, come speriamo, non riescono a rendersi conto di dove sono arrivati e si perdono tra le mani di Lars Stalfors portando a temine questo loro ibrido di brillantezza punk, allora sì, sarà una vittoria.

Quello che, come dicevamo prima, ci dà immediatamente soddisfazione è la scrittura di Mish Way. La sua voce si divide in murder ballads, fiabe, storie d’amore liberatorio (Kiss Me When I Bleed). Mish scappa e racconta altro. Parla con rabbia e disincanto, come una vera regina punk della narrativa di genere. 

I wrote from the voices of other people. I got schizophrenic. I made up these fairy tales in my head, hyper-inflated versions of my own experiences or stuff I took from books.