Punkreas – Il Lato Ruvido

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Bisogna ammetterlo: I Punkreas, in una qualche misura, sono un gruppo importante. E se Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti canticchia che “ogni adolescenza coincide con la guerra”, noi possiamo invece dire che, sempre in una qualche misura, la nostra adolescenza coincideva con i Punkreas. E più o meno sono due modi diversi per dire la stessa cosa. Stiamo parlando di un’altra epoca, ovviamente. Stiamo parlando di qualcosa come “quattordici anni fa”. Esatto, “quattordici anni fa”. Sapete bene, spero, di che anni stiamo parlando. Erano gli anni in cui ti alzavi dal banco e gridavi: “Professore, vaffanculo!” . Erano gli anni in cui finivi dal preside, se ti beccavano col fumo. Erano gli anni delle assemblee, delle autogestioni, delle tentate occupazioni. Erano gli anni dei cani antidroga nei corridoi (poi sarebbero arrivati gli anni de I Cani, e basta). Erano gli anni di “Come te nessuno mai”. Erano gli anni che facevi sega, sia in un senso che nell’altro. Erano gli anni che anche se eri circondato da fighetti, ti credevi una specie di squatter. Erano gli anni in cui scoprivi il punk, a più di vent’anni dalla morte di Sid Vicious. Erano gli anni dei Punkreas, dell’album “Falso” (2002), ed erano gli anni di “Canapa”, la canzone. Perché insomma: “Sei mesi di condizionale/non sono niente male/per aver seminato sul mio davanzale/Sei mesi di attenzioni e cure/per tenere creature/con foglie a sette punte con un buon odore”.

E anche se “un bel vaffanculo” al prof non l’hai mai detto, salvo nella tua immaginazione, anche se alle assemblee partecipavi solo perché “bella rega’ saltamo greco”, anche se di canne, in realtà, ne hai fumate pochissime, i Punkreas erano sempre lì. In quella strana guerra chiamata adolescenza, i Punkreas erano fra i massimi esponenti del tuo canzoniere bellico (insieme agli Shandon, ai Prozac +, e tanti altri). Dispiace quindi, oggi che siamo nel 2016, ritrovarli con un album stanco e privo di guizzi come “Il lato ruvido”, che è il decimo in studio della loro carriera. Il sottoscritto ha provato ad ascoltarlo, più e più volte, e alla fine si è detto: “Magari sono io, magari sono io che non capisco”. E non è da escludere, anzi. Ma la verità forse è un’altra. La verità è che all’interno della lunga e gloriosa discografia dei Punkreas questo album, forse, è il capitolo più debole. All’interno della loro discografia questo album forse è “Il lato debole”, appunto. Non quello ruvido. Debole perché la ben nota miscela di punk, rock, e ska, che fa della band quasi una versione nostrana dei Rancid, sembra girare a vuoto (e in fatto di stanchezza guarda caso siamo dalle parti dell’ultimo “Honor is all we know” di Armstrong & Co.). Eppure, “Lo Spirito Continua”, avrebbero detto un tempo i Negazione. Qui lo spirito c’è ancora, ma è uno spettro esile, malgrado la presenza vocale, quella sì ruvida, del frontman Cippa, la cui vetta interpretativa (come anche la vetta in generale del gruppo), per chi scrive, rimane “American Dream” dall’album “Quello che sei” (2005).

Resiste, malgrado tutto, la voglia di raccontare il presente, e di farlo prendendo una posizione. Specie in rapporto al passato, alla Storia, agli scheletri nascosti nel puzzolente stivale italiano. Ma non si intravede il futuro, forse perché non c’è. Tuttavia non basta a giustificare, anche solo in via teorica, una musica che vuol essere fedele a sé stessa, ma rischia di accasciarsi per mancanza di liquidi. Qui serve nuovo succo punkreatico, se così si può dire. Ecco, ai Punkreas servirebbe un trapianto stilistico (e sempre Tim Armstrong anni fa ci provò coi suoi Transplants).  Una buona mossa, in questo senso, sarebbe ripartire dal precedente “Radio Punkreas” (2014), dove la band si misurava con cover illustri di gente come CCCP, Subsonica, Jimmy Fontana, Ivan Graziani, e anche gli Skiantos del compianto Roberto “Freak” Antoni. La speranza è che dunque in futuro saccheggino di più, e che saccheggino meglio, da certi capolavori. Perché la musica può ancora cambiare, può ancora contaminarsi. Preparate la sala operatoria.