Whitney K – Goodnight

Acquista: Voto: (da 1 a 5)

Talvolta i dischi ti conquistano senza ragione apparente. Li metti su, e fin dalle prime note pensi: “Questa roba fa per me”. Così, non c’è da ricamarci sopra. Troppo facile però. Troppo facile per chi, come il sottoscritto, un disco deve raccontarlo, provando a sviscerare qualcosa, fosse anche un’idiozia. Tolta la premessa, di idiozia ce n’è ben poca in questo extended play di Whitney K (mezzo pseudonimo che cela, neanche troppo bene,  un certo Konnor Whitney). E chi sarebbe questo Whitney K? Un folk-singer canadese, originario di Vancouver, dedito all’arte del vagabondaggio. Stiamo parlando, in sostanza, di un cavaliere errante della musica folk (mica come altri, erranti solo a parole), di un cantastorie vecchia maniera che racconta di amori alcolizzati (in primis per la bottiglia), di attese interminabili, di perdizioni, e di ombre che irrompono nella tua vita, come l’oscuro avventore di un locale notturno.

“Goodnight” è il titolo del disco, per l’etichetta bolognese Maple Death Records. Ed è un disco bellissimo, che ci prende per le orecchie e ci costringe a vagare, come dei novelli Sancho Panza, insieme al nostro cavaliere errante, ma anche un po’ nichilista. Anzi, diciamo pure che non crede in un bel niente, salvo la bellezza dell’errore stesso. E di errori ce ne sono parecchi, in queste sette tracce: sbalzi stilistici, e di missaggio, alquanto repentini. Metronomi e accordature che saltano. Qualche secondo di chitarra noise. Un “biiiiiiiiiiip” che quasi ci perforava i timpani. Errori, appunto. Digressioni, divagazioni rispetto alla tabella di marcia, che è comunque una tabella niente male, fatta di canzoni scritte comme il faut, in cui ritroviamo la psichedelia dei The 13th Floor Elevators, la grazia stagnante del miglior Tom Waits, e la poesia dissonante dei The Velvet Underground, nella fattispecie di “ The Black Angel’s Death Song” (l’iniziale “Swans”, davvero stupenda).

C’è anche, proprio sul finale, un tocco country di pura lucentezza, nelle note della sublime title-track. E quando il disco si eclissa, ti accorgi che ne vorresti di più, che quella voce, così vera e così profonda, che a volte risuona melodiosa, e altre invece sembra riposare nel palato di Matt Berninger dei The National, ti ha davvero raccontato qualcosa, in questo disco che cerca l’alba al termine della notte. Finisce “Goodnight”, e come un bimbo sotto le coperte ti trovi a dire: “Raccontami un’altra storia”. Ma il cavaliere se n’è andato, svanito con le prime luci del giorno. Tornerà prima o poi, ne siamo certi. Come siamo certi che all’inizio abbiamo scritto una fandonia, perché di ragioni, per amare questo disco di Whitney K, ce ne sono. Ce ne sono eccome.