David Bowie – The Rise and Fall of Ziggy Stadrust and the Spiders from Mars

Acquista: Voto: (da 1 a 5)

C’era una volta un alieno misterioso, che qualche tempo fa, negli anni ’70 diciamo, cadde improvvisamente sulla Terr. Se volessimo metterla giù a mo’ di favola, la recensione di quest’album potrebbe benissimo iniziare così, ma alla fine non è di favole che trattiamo, o meglio, non solo di queste.

Mr. Jones aka David Bowie era già attivo dalla seconda metà degli anni ’60 e aveva dato alle stampe quattro album in cui il pubblico aveva già potuto apprezzare le sue doti di cantante/autore dotato di talento e voglia di stupire – basti pensare alle polemiche e alle censure per la copertina di “The Man Who Sold the World”, col nostro eroe in abiti femminili: un vero oltraggio per quei tempi! Certo, Bowie aveva innate doti di provocatore, e quella era l’epoca in cui il Glam Rock stava per esplodere, con tutti i suoi lustrini, le pose ambigue e l’atteggiamento piacione e lascivo che si sarebbe tradotto in stereotipi non sempre positivi o degni di nota.

In questo affresco storico musicale, la critica afferma che David Bowie riuscì a tirar fuori dal cilindro il primo, grande personaggio costruito della storia del rock. Ecco, lungi da me voler contestare un affermazione del genere, Ziggy Stardust è stato nel 1972 un prodotto assolutamente di successo, ma non trovo giusto ridurre questo personaggio e l’album omonimo ad una semplice operazione di marketing.

Ziggy non era solamente un personaggio ben costruito, egli era l’alter-ego artistico di Bowie, la sublimazione suprema dell’androgino Glam, una delicata e disincantata figura di romantico poeta dello spazio giunto sulla terra per caso – che alla fine cede alla tentazione del Rock, perdendo per sempre le amate stelle.

Una vicenda, che pochi anni dopo Bowie avrebbe interpretato anche su pellicola nella figura un po’ Ziggy e un po’ Thin White Duke (di Thomas Jerome Newton), nel complicato e ambiguo “The Man who fell to Earth”, di Nicholas Roeg. Nei panni dell’alieno, David riuscì finalmente a conseguire quel successo planetario a cui da sempre aspirava, regalando alla storia della musica un personaggio indimenticabile ed autentico nella sua pur breve vita. Spesso però ci si dimentica che Ziggy suonava e jammava con una band, quegli Spiders from Mars che non vissero molto senza di lui, ma che pure annoveravano fra le proprie fila un musicista di talento fin troppo sottovalutato come Mick Ronson – che avrebbe dato vita a interessanti album da solista e prodotto con lo stesso Bowie il più noto disco di un tale che militava in certi Velvet Underground… dare un’occhiata ai credits di “Transformer” del buon Lou Reed per credere!

Insomma, la squadra era composta da Mick Ronson alla chitarra, Trevor Boulder al basso e Mick “Woody” Woodmansey dietro alle pelli: è giusto ricordare anche questi bravi comprimari, anche se l’album è stato interamente composto da Bowie, perché i ragni da Marte sapevano decisamente suonare e il merito dell’impatto così fottutamente rock del disco, tanto per dirlo all’americana, è anche loro.

Per il resto, ci sono le canzoni. È difficile per un recensore cimentarsi con dei pezzi del genere, perché se molto si può dire su Bowie e sulla storia di quest’album, gli undici brani che compongono “Ziggy” sono semplicemente delle meraviglie sonore. L’alieno ci tocca da subito il cuore con la romantica e nostalgica “Five Years” – secondo chi scrive, la più bella ballad mai composta dal Duca –, ci fa ballare all’impazzata con “Soul Love”, “Hang on to Yourself”, la title-track “Ziggy Stardust” e la fiammeggiante “Suffragette City” (che conta infinite cover), ci stupisce con lo splendido solo di chitarra in “Moonage Daydream”, ci fa sognare guardando al cielo con gli occhi lucidi sulle note di “Starman” e “Lady Stardust” e infine ci saluta tristemente con una sospirante “Rock ’n’ roll Suicide” – ma solo perché ci rendiamo conto che lo spettacolo è finito e Ziggy se n’è ormai andato.

Ma credetemi, non vi sono parole che rendano giustizia alla bellezza e alle emozioni che Bowie mette in questi pezzi; egli con quest’opera iniziò una stagione artistica straordinaria che durò fino a “Let’s dance” – anche se non tutti sono d’accordo su quest’ultimo titolo –, durante la quale ha più e più volte cambiato pelle, fino a giungere all’apoteosi del Duca bianco o forse, come sarcasticamente faceva notare Julian Cope, all’affermazione del “bravo ragazzo all’europea”. Eppure, nonostante gli anni e tutti i cambiamenti nella carriera di Bowie, Ziggy è rimasto per sempre nei nostri cuori, fra gli album imprescindibili degli anni ’70.