Swans – The Glowing Man

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Parliamo di un doppio album, ma composto da appena otto tracce, per una durata complessiva che fa quasi venir voglia di ridere (poco meno di due ore). Ed è l’unica parvenza di riso che possiamo concederci di fronte all’ultima, e mastodontica opera degli Swans.

Un uomo risplende (“The Glowing Man”). Risplende nell’oscurità. Il suo canto ci racconta del caos, di quello che c’è sulla terra, e di quello che ci aspetta oltre. Quell’uomo è Michael Gira, il leader maximo, padre, e padrone degli Swans. Dite quello che vi pare, per noi è così. Uno e trino, come Dio Nostro Signore, e come la trilogia inaugurata con “The Seer” (2012), e proseguita con “To Be Kind” (2014), di cui quest’album rappresenta il portentoso e straripante atto conclusivo. Un disco doppio, e fino a qui ci siamo. Dalla durata proibitiva, ma solo per chi non ha tempo e voglia di lasciarsi andare. Ok, ma lasciarsi andare a cosa? A un’esperienza senza precedenti? Più sì che no.

No perché non parliamo di qualcosa che sovverte in toto i canoni del rock rivoluzionandoli e producendo di fatto una musica mai ascoltata prima. La storia del rock, come anche la stessa discografia (sterminata) degli Swans, ha già una certa familiarità con lavori importanti, e ingombranti, che spostano i limiti del suonabile e dell’ascoltabile. Eppure, ascoltando e riascoltando “The Glowing Man”, diventa sempre più forte la sensazione, che poi diventa idea, e poi quasi certezza, di aver incontrato sulla propria strada un vero capolavoro.

Un disco anacronistico, e già questo basterebbe a renderlo interessante. Anacronistico nel senso che al giorno d’oggi, in tempi di fruizione sempre più rapida e svaccata, un’opera di così vasto respiro può essere collocata in un solo ed unico scaffale. Quello degli oggetti alieni. E voi da che parte state? Dalla parte dell’alieno o dell’esercito ottuso che lo vuole abbattere? La risposta non è scontata. Esteticamente, si tratta di un trionfo. Qui il gruppo raggiunge, un’altra volta, il culmine della propria espressività. Dimenticate la ruvida immediatezza di “To Be Kind” (che pure si fa ricordare in più di un passaggio). Qui gli Swans sfoggiano una maestria compositiva forse, e sottolineiamo “forse”, mai mostrata prima. Ma ci vuole tempo. Servono tempo e pazienza, per immergersi in questo nuovo incubo rurale, in quest’ennesima metamorfosi, in questo gotico americano che non è mai stato così dilatato, così spaziale, così “progressive”, così ipnotico nelle sue ripetizioni ossessive, così travolgente nei suoi cambi di marcia, così brutale laddove è necessario. Impossibile citare un brano che svetti su tutti gli altri. La title-track vi darà una vaga idea del buco nero in cui vi state cacciando.

Tutto il cucuzzaro: il noise, il punk, il dark, il folk-western, la voce di Jennifer Gira, moglie di Michael. E quella di Micheal, ovviamente. E poi i Sonic Youth, ma meglio dei Sonic Youth, e Glenn Branca. Ma soprattutto gli Swans. E ancora, verrebbe da dire, l’opera immensa di un uomo che nell’arte aspira alla grandezza, alla totalità. Finalmente, una boccata d’inferno. In quest’epoca di arroganza social e basso profilo artistico. In quest’epoca di falsa modestia che nasconde vera mediocrità, e incapacità. Difficile immaginare un altro disco degli Swans dopo questo. Molto difficile. Quasi impossibile. Quasi.