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13 Maggio 2016 | Relapse |
Tutto nasce nel carcere dove Domenic Palermo viene recluso per aggressione aggravata e tentato omicidio. Due anni lunghissimi, durante i quali Domenic scende a patti con i propri errori, riflettendo sul metodo migliore per incanalare tutto quel senso di colpa. Sceglie bene, sceglie l’arte. Fonda i Nothing nel 2011 e tre anni dopo è già sugli scaffali la sua prima splendida opera di redenzione: “Guilty Of Everything” – un titolo che la dice lunga. Ma non basta. Forse per via di un debito karmico irrisolto – più probabilmente per via di quella sfortuna che ti rincorre quando non sei ancora libero nei pensieri –, nel 2015 il nostro viene aggredito durante un concerto ad Oakland, rimettendoci la parte posteriore del cranio, e spezzandosi qualche vertebra. Ma lui non molla.
E’ grazie a questa tenacia che oggi siamo al cospetto del secondo capitolo della saga, anch’esso dalla genesi per nulla semplice: “Tired Of Tomorrow” – altro titolo emblematico. Infatti, l’album nasce per essere distribuito dalla Collect Records: etichetta gestita con devozione da Geoff Rickly (Thursday) e finanziata da Martin Shkreli, CEO della Turing Pharmaceuticals. I problemi sorgono quando Shkreli viene riconosciuto come il principale attore all’interno dello scandalo legato all’acquisizione dei diritti di vendita del medicinale Daraprimla – farmaco che aiuta i malati di HIV e cancro – e conseguente aumento astronomico del prezzo. I ragazzi non ci stanno e Palermo dichiarerà:
“E’ una persona a cui non voglio essere associato. Non ho intenzione di lavorare con qualcuno che possiede quel tipo di mentalità.”
L’ennesimo duro colpo viene però smorzato dall’intervento della mitica Relapse Records, che se li carica in spalla – e che produsse anche l’esordio. Così “Tired Of Tomorrow” vede la luce, ponendosi esteticamente come incentivo per chiunque abbia la necessità di trovare la luce in mezzo al buio – i cui ricavati andranno molto probabilmente a pagare le cure dello sfortunato Palermo.
Un album d’analisi che parte dal basso, dalla tragedia, nel tentativo di mettere al proprio posto i tasselli di un’esistenza burrascosa. Non un crogiolarsi, ma un’avventura all’interno di una sofferenza a tratti didattica – come lo dovrebbe essere per le persone sagge –, senza per questo sentirsi parte lesa di un processo cosmico incentrato sulla demolizione sistematica di certezze.
Siamo al cospetto di un lavoro emozionale ma allo stesso tempo muscoloso: come la tradizione di genere insegna. Il Post-Hardcore, quello segnato dalle più interessanti derive Emo – parliamo di gente del calibro di Texas Is The Reason e Jimmy Eat World, non certamente dell’appropriamento indebito in termini, e visual, dei Tokio Hotel –, qui incontra Shoegaze e Post-Rock: un interessantissimo connubio capace di dare seguito al lavoro dei padri svolto nei primi anni novanta. Accendiamo un cero per Domenic e gustiamocelo come un unico viaggio compatto. Salvifico.