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14 Ottobre 2016 | Go Down Records |
Dopo un album delizioso come Cosmic Pyre (2015), sarebbe stato lecito aspettarsi da parte dei Mother Island un periodo medio lungo di lontananza dagli studi di registrazione. Non fosse altro per introiettare le dinamiche di un esordio clamoroso e trovarne la giusta resa live – quello che fanno le band normali insomma. Macché, ad un anno (e mezzo) di distanza la band Vicentina torna con il nuovo lavoro intitolato “Wet Moon“.
In realtà, la cosa che maggiormente stupisce di tutta la faccenda risiede nel “taglio” che emerge dagli episodi contenuti in questo secondo full-length. Non un cambiamento netto, ma una coerente evoluzione stilistica capace di rimanere aderente alla tanto cara estetica Psych, aggiungendo al panorama una predominanza visuale segnatamente Californiana. Sicuramente i The Byrds, certamente i Jefferson Airplane, ma qui parliamo anche di sabbia, tramonti e Sixties Garage-Rock – ascoltate “On Days Like These” e non smetterete più. A tal proposito, proseguendo nell’ascolto, emergono spontaneamente le figure di quel manipolo di ragazzotti capaci di far fruttare la propria esperienza al bancone (e magazzino) dell’Amoeba Music come rampa di lancio verso la riscoperta del Garage-Rock – parliamo ovviamente degli Allah-Las, da cui i nostri prendono spunto per riarrangiare in chiave personale le dinamiche di genere (“To The Wet Moon“, The Heat“).
Devono essere dei tipi romantici i Mother Island, sicuramente malinconici: come la vista della luna che si specchia sull’acqua – esattamente come il titolo dell’album, nato dopo la data veneziana dello scorso anno, vagando in barca per i canali della città. Una malinconia che talvolta assume certi tratti Noir mutuati dall’esperienza dei Velvet Underground (“Le Danse Macabre“), mentre in altri episodi si manifesta alla maniera del Blues “Heroin Sunrise” – con le chitarre che in chiusura omaggiano Jimmy Page: e chi se la dimentica “Since I’ve Been Loving You“? Resta invece sempre valido il paragone fra la voce di Liela Moss (The Duke Spirit) e quella di Anita Formilan – con leggera preferenza per la seconda.
Un disco avvolgente, che beneficia ancora una volta di Matt Bordin alla produzione, il quale per seguire l’indole purista della band si è avvalso unicamente di strumenti analogici e di un registratore Studer a 24 piste. Altro centro pieno, ma non c’era bisogno di dirvelo vero?