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Novembre 2016 | Woodworm | ![]() |
È piuttosto verosimile che molti non sappiano chi è Alessandro Fiori, e non é chiaro se augurarsi che la sua arte entri di diritto in una cultura di massa che oggi è affare per laureati. “Prima o poi si prenderanno anche il silenzio”, dice un cantautore che si chiama Colapesce, che con Fiori ci ha suonato assieme; su un divano, “Restiamo in casa” (canzone del primo) e “Fuori piove” (canzone del secondo), due grandi manifesti musicali dell’autunno/inverno per la nostra generazione indolente.
Il nuovo disco di Alessandro Fiori si intitola “Plancton“. Parola quasi impronunciabile, e che probabilmente nessuno ha più pronunciato dai tempi delle medie. Quindi prima di tutto necessita un bel ripasso. Il plancton lo potete vedere disegnato sulla copertina del disco, nella sua varietà e nelle sue forme stupefacenti – quasi viene l’idea di farne una meravigliosa tappezzeria per la poltrona di casa. La sua composizione varia a seconda della profondità. Vive sospeso, in balìa delle onde, va errando, impercettibilmente piccolo, si declina al singolare ma indica un insieme.
Avete mai nuotato in un mare di plancton? Se sì allora avrete visto anche quello che sa fare quando è agitato: si illumina. Documentato ma inspiegabile, è il fenomeno della “luciferasi”: il mare appare come illuminato da sotto la superficie dell’acqua. La luminescenza disegna sul mare un grande ovale al cui centro sembra bruciare un falò che va gradatamente attenuandosi verso le estremità – non lo dico io ma Jules Verne, che sugli abissi marini ci ha scritto un romanzo. Alessandro Fiori invece sugli abissi ci ha scritto un disco, che è più difficile che scrivere un romanzo. Sarebbe più giusto dire che lo ha scritto “negli abissi”, in presa diretta, senza appoggiarsi a nulla, tantomeno ai suoi dischi precedenti.
Plancton arriva a distanza di tre anni dall’ultimo lavoro, “Cascata”, e riprende idealmente da quell’inesorabile caduta dell’acqua a cascata / per sempre. Il torrente si è fatto fiume,
«Ma il sole rimane dietro» (Aaron)
Non c’è cornice, o perlomeno non ci sono quelle tacche narrative a cui Fiori ci aveva abituato, regolari nel loro stile unico ma sempre con accordo finale. Qui c’è solo un magma che si muove incessantemente, tra suoni gorgoglianti, elettrici ed elettronici, mescolati in un magnifico casino armonico – rendiamo grazie a Tasto Esc e a Frnkbrt. Un flusso di parole che dalla superficie scende e risale continuamente. I suoni cupi di un’odissea sottomarina (“Plancton”), la canzonetta da paese dei balocchi che va in pezzi (“Piazzale Michelangelo”), i gatti fotografati dall’occhio umano in mezzo alla neve: mentre l’essere umano registra con spietata grazia la scoperta che “non c’è margine d’amore” (“Margine“), prendendo atto della natura misteriosa del trapasso (“Io ho paura“).
La dimenticanza d’amore è malattia (“Ivo e Maria“): come si fa a dire in un colpo solo il giusto necessario? Stando in quel punto immaginario che è lo zenit. Che è dove Alessandro Fiori sta da sempre. In Plancton con un valore aggiunto: ha mollato tutto, ha vagato, si è un po’ agitato dopodiché si è illuminato come non mai.
«Lasciami qui come un pezzo di merda qualsiasi, mi sbrigo da solo» (“Galluzzo”)
Lasciamo perdere per un attimo il miraggio di una via rettilinea. Il terzo mondo, il sesto mondo (“Mangia!“), perché nel punto più basso della materia può succedere di tutto: le mille stringhe, nel sottosopra, dettano legge. Se “Il Senso” ci parlasse chiaro fin da subito, come sarebbe? “Ciao sono il Senso, come va? mi hai capito?” – “Sì” – “A posto”.
Ma nell’infinitamente variabile ogni senso è previsto e ognuno potrà trovarvi quello che gli pare. Comprese strambe preghiere, forse le sole che ci restano, le sommesse del canto con pudore, tra il vuoto e la comunione.
Educa la gente all’abbigliamento colorato […] all’ubriachezza di gruppo […], ruba più bambini che puoi […] fa che l’uomo si privi di se stesso (“Madonna con bambino rubato“)
Ed è in queste geometrie anteriori a ogni pensiero che nasce Plancton: un disco indefinibile e meraviglioso, che trascina negli anfratti più oscuri, che porta il segno della dolce arrendevolezza dell’acqua. E se risuona così bene, dentro e fuori, è perché noi siamo fatti per il 70% per cento di quella cosa lì: lo dice il libro di scienze delle medie.




