Solange – A Seat At The Table

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But you know that a king is only a man

With flesh and bones, he bleeds just like you do

(Weary)

Quanto del cinema italiano emergente è vissuto seduto ad un tavolo con la macchinetta del caffè rumorosa mostrata in una qualche inquadratura fugace, mentre un po’ di romanità pendeva dalle labbra di due personaggi, faccia a faccia, occhi stanchi e labbra pesanti? Sarà che siamo in clima di Torino Film Festival ma il ruolo del tavolo, nella storia del cinema, come in quella dell’arte, è sempre stato quello di un catalizzatore conversazionale, spesso riguardante temi inaffrontabili per la serenità individuale. Il tavolo è la gabbia. Ci si muove con le parole attorno a una superficie spesso quadrata, e l’incubo escheriano vuole che non ci si stacchi mai dal legno. Si può rompere l’attaccamento, l’accerchiamento. Tuttavia è una risoluzione fisica e non concettuale. Il tavolo non è mai cambiato nella storia. È lo stesso che si passa senza vincoli spazio-temporali da discussione a discussione, che nasconde sempre gambe e carni diverse, che media sempre posizioni nuove e opposte. Una donna ci ha invitati a sedere con lei, in questo che è A Seat at the Table. Forse non è posto per tutti. Tuttavia l’invito è universale.

Solange, sorella del leopardo Beyonce, riemersa con vigore da alcune produzioni meritevoli, torna con timori e rabbie nere per invitarci a discutere un tema che sta movimentando la comunità rap ed R&B; un tema che non smette mai di vibrare a alta magnitudo. In questo interludio è il padre di Solange a parlare:

We lived in the threat of death every day. Every day. So I was just lost in this vacuum between integration and segregation and, and racism. That was my childhood. I was angry for years… angry, very angry

(Interlude: Dad Was Mad)

C’è un senso di appartenenza, diffuso all’interno della comunità nera, che viene costantemente negato, respinto, combattuto da chi invece si è insediato nella storia. Con armi e psicologie e colori. In Where Do We Go, probabilmente il brano più interessante di quest’ultima produzione, è esattamente questo a far ruotare un sentimento di isolamento e non appartenenza. La comunità nera viveva dove la gentrificazione ha nascosto ed omesso. Niente musica, non guardare, non dare nell’occhio:

Speakers off tonight

Turn off your headlights tonight

Don’t drive the road too slow

Don’t look too close tonight

This used to be ours

This used to be you and I’s

What used to be mine

Say your goodbyes

(Where do we go)

È proprio il senso di appartenenza che marca a sangue Weary nei suoi versi conclusivi: And, “Do you belong?” I do, I do. Come è stato fatto notare questo verso conclusivo richiama una riflessione della cantautrice, pubblicata sul suo sito internet e scaturita da un concerto dei Kraftwerk a cui ha partecipato assieme alla sua famiglia, la cui presenza era costantemente studiata.

[…] After you think it all over, you know that the biggest payback you could have ever had (after, go figure, they then decided they wanted to stand up and dance to songs they liked) was dancing right in front of them with my hair swinging from left to right, my beautiful black son and husband, and our dear friend Rasheed jamming the hell out with the rhythm our ancestors blessed upon us saying….

We belong. We belong. We belong.

We built this.

Il terzo album di Solange – annunciato appena tre giorni prima della sua pubblicazione – è quindi il resoconto dialettico di un percorso personale che ha visto succedersi persone, eventi e sentimenti. Una personalità storicamente indebolita, da un lato; dall’altro, la voglia di essere unici e forti. Nelle parole della stessa autrice, ci troviamo ad ascoltare a project on identity, empowerment, independence, grief and healing. Ricordiamo che dal 2008 Solange non pubblicava un LP: questo a significare che il percorso è stato lungo, sebbene questa strada e questi anni, nelle parole di una canzone, durino appena cinque versi, contornati da un basso leggermente funky:

I tried to keep myself busy

I ran around in circles

Think I made myself dizzy

I slept it away, I sexed it away

I read it away

(Cranes)

Rimanendo sempre accerchiati da quegli stessi bassi, Cranes procede e si mostra in quella che è la metafora per eccellenza di quello che affrontano le donne afroamericane. Una necessità di liberazione interiore e una volontà di appartenere a sé stessi e al mondo che si scontra con quelle gru (da cui il titolo del brano) che pesano nel cielo come nuvole metalliche, la cosa più innaturale nel dominio del cielo.

But it’s like cranes in the sky

Sometimes I don’t wanna feel those metal clouds

Yeah, it’s like cranes in the sky

Sometimes I don’t wanna feel those metal…

(Cranes)

Tuttavia c’è una bellezza interiore che bisogna scoprire e che può essere rosa o nera, universale o individuale, e che di sicuro appartiene a ogni donna che come Solange sente di dover appartenere a un universo differente. È Tina Lawson, la madre delle sorelle R&B, a parlare e a confessare una perfezione nascosta:

I think part of it is accepting that it’s so much beauty in being black and that’s the thing that, I guess, I get emotional about because I’ve always known that. I’ve always been proud to be black. Never wanted to be nothing else. Loved everything about it, just…

(Interlude: Tina Taught Me)

L’imperativo quindi è quel sii te stesso che spesso ci risuona come dogma dozzinale. Eppure sparse ci sono donne e ci sono uomini che hanno bisogno di ripeterselo, urlandosi vicendevolmente la loro unicità. È così che comincia A Seat At The Table. Un minuto e cinquanta di architettura R&B e quello che è banale diventa raffinato e bagnato dalle giuste parole:

Fall in your ways, so you can crumble

Fall in your ways, so you can sleep at night

Fall in your ways, so you can wake up and rise

(Rise)

Quello che è fall diventa walk, alla quarta ripetizione. Ovvero diventa sicurezza, arroganza, sfrontatezza. La stessa che ci si presenta in chiusura (Closing: The Chosen Ones). Quell’arroganza guadagnata e sofferta:

You know, our great-great-grandfathers and grandmothers that came here, they found some kind of way to make the rhythm. You know, and they kept rhythm, no matter what. Now, we come here as slaves, but we going out as royalty, and able to show that we are truly the chosen ones.

(Closing: The Chosen Ones)

Data:
Album:
Solange - A Seat At The Table
Voto:
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