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24 Marzo 2017 | Artificial Plastic | JAMC |
“Can’t stop the rock“, ma dimenticatevi gli Apollo 440. Qui l’immaginario non è quello dell’onda travolgente, piuttosto una risposta alla domanda: “Ma siete ancora qui?“. Spallucce alzate e occhi chiusi a scandirne l’incredulità. La storia, almeno per quanto riguarda i primi due dischi, è sicuramente dalla loro: peccato che siano trent’anni che non s’imbattono (manco per sbaglio) in un disco buono, qualche sufficienza però c’è stata – come ad esempio il goffo tentativo di stare al passo coi tempi emerso nell’ultimo lavoro in studio, quel Munki che nel 1998 frullava certe buone intuizioni con il Trip-Hop di “Perfume“. Parliamo anche di vent’anni fa.
Sono lontanissimi i tempi di “Psychocandy“, perla seminale ed irriproducibile – anche per loro visti i concerti a cui abbiamo assistito – e “Darklands“; mentre permane quel rapporto “irritabile” fra i due fratelli Reid. Loro però nel corso degli anni hanno continuato (inconsciamente) a crederci, per poi ricongiungersi nel 2007 (si erano sciolti nel 1999), esibendosi prima al Coachella e poi al Meltdown Festival. Da allora i concerti si sono susseguiti e procedono tuttora.
Questo senza mai dare alle stampe un disco. Una riluttanza dovuta appunto all’attrito che negli anni non ha smesso di manifestarsi nel rapporto fra i due fratelli. E qui entra in gioco l’arbitro. Parliamo di Martin Glover in arte Youth. Spetterà dunque al membro fondatore e bassista dei Killing Joke, l’arduo compito di mantenere calme le acque e sfoderare cartellini rossi all’occorrenza – va però detto, ad onor del vero, che il buon Glover porterà in porto l’imbarcazione, non senza problemi.
Damage And Joy si presenta ai nastri di partenza come un connubio fra vecchi pezzi riarrangiati, qualcosa di nuovo e tante belle donzelle a cui domandare le corde vocali. Infatti, già il primo singolo (“Amputation“) rappresenta una rilettura di un brano edito da Jim Reid (come solista) nel 2006, dal titolo “Dead End Kids“. Stessa sorte per “Facing Up To The Facts” già contenuta nell’album “Don’t Worry Be Happy” a firma Freeheat – altro progetto parallelo di Reid in compagnia di Ben Lurie, Nick Sanderson e Romi Mori. Quest’ultima per giunta privata della propria aura originariamente nichilista, in favore di un approccio molto più positivo – parliamo d’impatto e soprattutto delle liriche. La sopracitata “Can’t stop the rock” è qui in realtà l’ennesima cover contenuta nell’esordio discografico di Linda Reid (la sorellona) in arte Sister Vanilla. Poi arrivano le collaborazioni.
Partiamo dai familiari che è meglio. In “Always Sad” troviamo alla voce Bernadette Denning – la ragazza di William –, una discreta interpretazione che ci riporta alla mente certo Pop Punk à la Muffs, ma senza Kim Shattuck, quindi peggio. Il primo “calibro da novanta” arriva con l’innesto di Isobel Campbell su “The Two Of Us” e “Song For A Secret” – senza peraltro spostarsi più di tanto dal canovaccio musicale di cui sopra –, mentre per il secondo è servita una telefonata, e qui lo sapete: comporre il numero giusto potrebbe fare la differenza. Dall’altra parte della cornetta risponde il mitico Bobby Gillespie, che senza indugi ti propone il nome giusto per il pezzo scoperto: Sky Ferreira. Già con il mitico frontman dei Primal Scream nell’ultimo “Chaosmosis“, la cantante e modella statunitense accetta al volo – prova a contraddire Bobby, se ci riesci. Ne esce una “Black And Blues” duettante ma abbastanza flaccida.
Probabilmente, se dovessimo (e non vogliamo, chi siamo per farlo?) dare un consiglio alla band, diremmo loro di smetterla con le ospitate e ripartire da quella “Get On Home” capace di mostrare un minimo di attributi passati, ben nascosti sotto lo spesso tessuto Pop di un paio di mutande della nonna.