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21 Aprile 2017 | Partisan Records | theblackangels.com |
Qualche sera fa, guardando svogliatamente “Love & Mercy” – il film biografico su Brian Wilson –, ho pensato a Christian Bland. In testa, fluttuavano le solite domande, tipo: “Chissà quanti dischi ha John Cusack in casa” e “Chissà cosa ne pensa il leader dei Black Angels di questa cosa“. Lui si, grande fan di Wilson, mica come quella gente che arriva alla visione della biografia sopracitata con tre anni di ritardo.
A proposito, non so cosa ne pensiate voi, ma sappiate che a volte le riproduzioni filmiche di personaggi cardine (di qualsiasi contesto) possono creare piccole realtà parallele. Uno spazio tempo che trasporta il ricordo in contesti altri, talvolta creando uno scarto in positivo o negativo – in questo caso non saprei dirvi, rimane il fatto che Paul Dano rende talmente bene l’idea di “tenero disagio” da meritarsi la nomination come miglior attore non protagonista ai Golden Globe.
Se di Psichedelia stiamo parlando, allora è normale che nel 2017 il punto di riferimento siano i The Black Angels. I motivi sono tanti. Prima di tutto pensate al fatto che senza Bland potevate scordarvi il Levitation Festival (prima noto come Austin Psych Fest) – e sapete quanta importanza abbia oggi il comparto live per la rinascita di una scena –, e poi perché grazie ai primi lavori della band – “Passover” e “Direction To See A Ghost” – é tornato in auge quel modo viscerale d’intendere il genere.
La faccenda possiede però radici riconducibili ad inizio millennio: pensavate più lontane nel tempo? Beh, forse, ma in realtà durante l’adolescenza il nostro faceva l’atleta. Salto in alto per la precisione (alla Florida State University), passione scemata dopo le lesioni riportate ad un ginocchio. Fu proprio in quell’occasione che la snobbatissima (in tenera età) chitarra tornò in auge. Con lei il ricordo dell’eco che faceva Sgt. Pepper’s in salotto. L’illuminazione definitiva giunse quando imparò ad accendere il giradischi: e giù di Bob Dylan mentre i genitori andavano al supermercato.
Ma a dodici anni, sebbene risulti piacevole l’ascolto, non tutti hanno voglia di mettersi lì ad imparare uno strumento: poi come già detto con il salto in alto si rimorchiava bene. La situazione però cambia se sei costretto in casa per un infortunio; e nel 2000, quando imbracciò una copia della Johnson strat comprata su Ebay gli sembrò un sogno. Che durò poco visto che suonava di merda. Si affidò alla Gibson SG Standard qualche tempo dopo e il Dio della Psichedelia lo accolse finalmente nel suo bestiario.
Alex Maas è un amico di vecchia data, sono cresciuti insieme a Clear Lake City e come spesso accade quando si vuole creare qualcosa, la prima richiesta la si fa alla persona più vicina. Mettono in piedi dapprima i The Black & Green Scarecrows, in seguito abbreviati in Scarecrows (nel 2003), mentre con l’arrivo di Stephanie l’anno successivo si formano i The Black Angels.
Uno spiegone necessario per farvi capire come nascono le grandi band, sprone definitivo per quelli che: “eh ma sono troppo vecchio per fare Rock’n’roll“, infatti lo sei.
Ora, la netto dei primi tre strepitosi lavori, e del minore (per gli altri) Indigo Meadow, possiamo con certezza affermare che anche con questo nuovo lavoro dal titolo/tributo – spero che sappiate tutti cos’è “The Black Angel’s Death Song” (dai, Velvet Underground?) – si raggiunge la vetta della cosiddetta Neo-Psichedelia.
Mai dimenticarsi a casa: Reverb, Echo, Fuzz, Overdrive, e Wah. Mai. E ben piantata nel cervello l’impostazione di battaglia di Syd Barret: Fender esquire + Selmer Amp cranked + Binson Echorec. Tra le altre, Bland è anche figlio di predicatori, quindi occhio a sgarrare con i dogmi.
Come al solito tutto è stato composto in precedenza per poi essere spruzzato di polvere magica in studio. Il nuovo Death Song, pur mantenendo fede all’impatto musicale “drogato” della band (i Velvet Underground che incontrano i 13th Floor Elevators a cena con i primi Pink Floyd) sposta leggermente il tiro delle liriche verso le dinamiche sociali odierne. Un luogo metafisico dove il cinismo sotto LSD di “I’d Kill for Her” fa il paio con il malcontento dei nostri tempi e l’impossibilità reale d’espressione (“Half Believing”).
“Grab as Much (as you can)” andrebbe ascoltata stesi per terra nella propria stanza, pensando a Pet Sounds, magari sotto effetto di sostanze non propriamente legali; l’ultima volta Christian Bland da questo iter ci ha ricavato una visione allucinante in cui veniva inghiottito in un vortice di simboli Maya mentre le sue ossa si disfacevano. Niente male davvero, provate anche voi e diteci com’è.
L’oscurità fa capolino da ogni riverbero, da ogni rivolo acido, svelando il proprio volto solo sul finale. Un doppio episodio il cui incipit sembra voler musicare un’opera di Bosch o di Dalì (“Death March“), per poi abbandonarsi alla malinconia senza speranza dei Warlocks di Heavy Deavy Skull Lover con la conclusiva e dolcemente terrificante “Life Song“.
Se chiudete un occhio sulla copertina retrò in stile sixties “7, peculiarità che al contrario potrebbe mandare qualcuno in brodo di giuggiole: potrebbe essere il vostro disco dell’anno.