Ulver – The Assassination of Julius Caesar

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L’intramontabile vena compositiva degli Ulver segna il traguardo di tre album in poco più di un anno. Trasformazioni camaleontiche senza fine ci mostrano una band in un continua mutazione. “Assassination of Julius Caesar è innanzitutto un viaggio in mezzo alla storia europea, segnata da miti, culti e leggende; è una riflessione sui riti funerari di massa antichi, moderni e contemporanei.

L’incendio di Roma e la leggenda che Nerone la guardò brillare suonando la lira, le idi di marzo, la persecuzione dei Santi Pietro e Paolo, la caduta dell’Impero Romano e la nascita del cristianesimo, la fine del culto dedicato alla Diana nemorense, protettrice del sacro bosco di Nemi e germe del pantheon romano; l’inizio del culto di Lady D –  la dea Diana contemporanea:

“The princess of  Wales, her sexual drive.

Stop dead under the river, in the capital of romance;

The most hunted body of the modern age;

flowers crown her head; ancient goddess of the moon.”

Quello che si caratterizza come il disco più Pop ed accessibile del combo di Oslo è una vera riflessione neoplatonica su tutta la discografia degli Ulver; mai i synth e le sezioni ritmiche sono state così semplici, bilanciate, essenziali ed efficaci allo stesso tempo. Synth-pop maturo in stile Tears for Fears, Peter Murphy, Talk Talk di fine anni ’80. Le caldissime linee vocali di Garm abbracciano, in maniera definitiva e diretta, trame sonore tangibili ed orecchiabili, mentre le vene sperimentali erano già scemate col precedente e fortunato “ATGCLVLSSCAP”. Ora tutto diventa più calmo, caldo, fruibile, semplice.

Tutti gli album degli Ulver sono da prendere in relazione ai precedenti, per esaminare la scia stilistica mutevole. Se nell’eterna scia sperimentale della loro discografia raramente si è gridato al miracolo o al fulmine a ciel sereno (almeno da “Themes from William Blake in poi), i nostri ci hanno sempre stupito: senza sconvolgere eccessivamente il loro songwriting.

Imprescindibile “Perdition City” e la sua dicotomica jazz/caldo-glitch/freddo, l’Ambient ritualistico di “Shadows of the Sun”, l’essenziale Post-rock di “War of Roses”, l’esperienza live di “Messe I.X-VI.X”. Il lunghissimo brancolare nel crepuscolo e nella notte, manovrando e maneggiando manopole ed elettronica riflessiva, sembra finito (di nuovo). Se con “War of Roses” si era giunti al periodo diurno dell’eterno scorrere temporale delle giornate ulverine, subito si è tornati nello psichedelico mondo delle tenebre. Ma gli ultimi brani del precedente album avevano presagito un albeggiare all’orizzonte; riverberi solari che esplodono in pieno in questa nuova composizione.

Se in passato i nostri lupi avevano toccato e accarezzato i più disparati generi musicali, mai come ora ci sono entrati in pieno con tutto il corpo. Non c’è mai stato così tanto Trip-hop come in “Rolling Stone”: Tricky e la scuola di Bristol sono presenti più che mai e i featuring femminili portano il brano direttamente all’interno di un panorama quasi Dance – tanto somiglia a “Safe from Harm” dei Massive Attack –, lineare e semplice.

Non mancano i fraseggi Psichedelici e i richiami al passato Elettro-noise, ma ora tutto viene messo in coda, al di fuori del corpo dei brani. Delicatissime citazioni anche dal primo “Bergtatt, uno degli album più pagani e Folk di tutto il Blackmetal, in relazione alla grande storia drammatica universale. Del resto, la bambina che ora si perde nel bosco è la stessa del primigenio dramma discografico.

“Poor little sister, I hope you understand

The babe in the woods will be taken by a wolf.”

Viene detto anche in “So Falls the World”: “Tragedies repeat themselves in perfect circle…”, dove si narra della caduta del Colosseo, della caduta di Roma e della caduta del mondo a suon di Synth-pop, con l’arpeggiatore a metà strada fra Moroder e New Order: ennesimo fulmine a ciel sereno. Naturale più che quel flusso verso “Southern Gothic” che profuma di Talk Talk e Tears for Fears: una perfetta gemma Pop di 3,40 minuti. Meraviglioso il tocco di Martin Glover (produttore e arrangiatore), il quale porta un po’ dei suoi Killing Joke (e dei Verve) all’interno dei brani.

Con “Angelus Novus” le atmosfere si fanno più dolci e rarefatte. L’Angelus di Paul Klee è quello che guarda alle vittime della storia, ai drammi e alle tragedie che ormai l’uomo ha dimenticato e le quali vittime sono dimenticate e non più piante. Una lenta escalation vocale dove la massima libertà di Garm incontra tantriche chitarre e tabla; un requiem per l’uomo che viene trascinato avanti nella sua vita universale dal tempo e dal progresso, lasciandosi alle spalle gli orrori di cui l’umanità è stata capace.

La rivincita, per Walter Benjamin è nell’evoluzione (in quella della musica per quanto riguarda gli Ulver), la redenzione è nell’operato artistico. Nei frammenti del progresso si possono vedere dei barlumi di speranza e “Transverberation” ne è la prova, sorpresa fra tutte le sorprese ulverine; il caldo e morbido candore della pulsione erotico-estatica di Santa Teresa d’Avila, e il climax del barocco romano che raggiunge un secondo picco nelle cronache del 13 maggio 1981 – l’attentato a Papa Giovanni Paolo II. Il brano è il punto più luminoso di tutto l’album, dotato di un’incredibile gemma eterea. Pop soffuso dai gentilissimi delay.

Forse eccessivo scomodare le produzioni di Lana del Rey, sicuramente appropriato chiamare in causa tutto quel Pop solare e malinconico à la Memoryhouse, Wild Nothing e Beach House. Delicati synth emergono dallo sfondo in quella che sembra una preghiera risolutiva dei più bianchi e puri Ulver.

Continuano le loro preghiere in quello che ormai sembra il funerale Pop della collettività contemporanea. Se tutto il mondo teneva il fiato sospeso sul Papa, prima ancora piangeva Sharon Tate, ed i delitti della famiglia Manson. Era il “1969″, come suggerisce l’ennesimo brano soffuso dai sapori vicini a Bryan Ferry o all’ultimissimo e riflessivo David Bowie.

Forse solo la conclusiva “Coming Home” possiede punti di contatto con la passata discografia degli Ulver – parliamo di decise maree drone capaci di far emergere lentamente sentori New-wave in quello che è il solito mare-magnum freddo e digitale: spetterà al sax di Dag Stilberg (Samuel Jackson Five, Maranata) disegnare la componente calda della faccenda. Insomma, è davvero piacevole bearsi della purezza (e della maturità), di questo act che è riuscito nell’intento di raggiungere il candore e la semplicità passando per gli sperimentalismi più ostici e la manipolazione elettronica: il tutto senza dimenticarsi per strada il lato più umano e sentimentale; perché nonostante tutto le componenti apatico-robotiche sono sempre state avviate dalla scintilla umana.

 

Data:
Album:
Ulver - The Assassination of Julius Caesar
Voto:
51star1star1star1star1star