Vince Staples – Big Fish Theory

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Quali sono oggi i bei dischi che mettono quasi tutti d’accordo? Dunque, succede con le ristampe espanse in occasione dei venti/trentennali. Poi capita con alcune cose nuovissime e con l’ispirazione “di ritorno” di gente coi capelli bianchi. E poi c’è questa cosa dell’entusiasmo, a volte doveroso, altre volte un po’ sospetto, per importanti uscite di area black. Black in senso anche molto ampio, da Frank Ocean agli Algiers, volendo. Intendiamo quella fascia larga dove produttori, rapper, soul singer, musicisti e agitatori determinano oggi una reale influenza su molte cose, persone, artisti che non “nacquero” proprio black.

Ora, circoscrivendo il discorso all’ambito hip hop ci vengono tante domande. La prima è perché adesso il rap piace a (quasi) tutti? E poi non è che a volte lo approcciamo un po’ da “turisti”? Siamo forse quelli che non vogliono “perdersi la festa”? Oppure è tutta una casualità e allora discorso chiuso. In realtà, l’impressione è che anche  le nostre “folgorazioni” siano in genere supportate da qualcosa d’importante e da cambiamenti sostanziali.

Bene, a latere delle domande inevase, iniziamo  a dire che Vince Staples ha fatto un disco che pare stia piacendo all’incirca a tutti e decisamente anche a chi scrive. Staples aveva preso  le distanze da alcuni canoni hip hop insiti ancora in  Summertime ’06, già dall’EP Prima Donna. L’uscita di Big Fish Theory è l’approdo ad un linguaggio che rimette elettronica e rap insieme sul ring. La teoria del pesce grosso dice più o meno che se tu stai in uno spazio piccolo, cresci fino a un certo punto e non vai oltre. Se invece la boccia è  più larga, ci sta che tu possa incrementare la stazza in un modo che neanche immaginavi.

Quello che caratterizza un disco del genere è che si tratta di un disco “ballabile” quasi dall’inizio alla fine. La struttura ritmica alterna 2-step, EDM, trap, technoelectro-funk.  E poi c’è quel genere di cose che fa Sophie (ospite in produzione, non a caso), così come quelle di Flume (altra presenza, qui). A questo assetto s’intreccia, ballabile come il resto, il flow di un Vince Staples ispirato, egocentrico, capo popolo in trance agonistica. Manca, vivaddio, quell’effetto di giustapposizioni forzate che a volte inficia le produzioni di questo genere. Avete presente la sensazione di quando uno mette le liriche su un pezzo che sta già  in piedi da solo? Ecco, le tracce di Big Fish Theory, volutamente, non stanno in piedi senza le rime e senza le improvvise aperture melodiche.

Il risultato è un disco aggressivo, selvaggio anche quando ci mette le mani uno come Jimmy Edgar che selvaggio non è. Ma questa cosa degli ospiti funziona bene anche perché non è un inutile carosello. Non serve a mostrare quanta gente può contenere questo carro da parata militare. Tutto è al suo posto e nessuno pesta i piedi al protagonista. In questo è l’opposto del pur decente  Humanz dei Gorillaz, dove Albarn ogni tanto sembra fare capolino. Sì, e dove c’era Vince Staples ospite, tra l’altro. Staples  che in Big Fish Theory  ricambia accogliendo Damon in “Love Can Be…”. L’openerCrabs In A Bucket”, con la sua solennità e gli inserti di Kilo Kish è da menzionare assolutamente. Soprattutto per come introduce la materia delle successive nove puntate (più interludi) senza però spoilerare nulla.

Nel 1989 David Foster Wallace si era preso la briga, insieme a Mark Costello di “spiegare il rap ai bianchi”. Lo faceva attraverso pagine febbrili e divertenti, fra racconti di strada e il tentativo di ricostruire il processo comunicativo che sottendeva il rap di quei giorni. Chi faceva cosa? A nome di chi lo faceva? E da chi voleva  farsi intendere? Per farla breve, il saggio riconosceva al rap l’enorme (e inedito) merito di essere davvero una parte rappresentativa di un tutto artistico, sociale, culturale e civile. Una parte che però parlava perlopiù a se stessa.

Ora sono passati quasi trent’anni e il rap, contrariamente alle attese è diventato più deflagrante da  quando un pubblico più largo e variegato ha cominciato a chiedere proprio di salvaguardare quel tono e quei contenuti. Ci sono artisti come Kendrick Lamar che hanno aperto gli orizzonti a dismisura ma non hanno  perso il DNA sociale e storico. E non hanno cambiato la loro lingua, nel bene e nel male. Insomma, quel che più o meno consiste nel  parlare anche ad altri continuando a parlare di sé.

Pubblico e artisti si cercano a vicenda e le cose succedono. Senza neanche il bisogno di capire come ci si è arrivati, magari. A uno come Staples (ma valeva anche per il Kanye di Yeezus) viene abbastanza naturale un approccio eterogeneo che, quasi senza volerlo, esalta l’identità e le radici. È naturale, per quel pesce, vedendo allargarsi le pareti della fishbowl, usare tutti i muscoli del corpo. Naturale che insieme alle rime ci si riappropri dell’electro o del punk. Naturale che Lamar (presente qui in “Yeah Right”) porti il suo lessico ben aldilà di vecchie barricate. Naturale che in Big Fish Theory la parola chiave sia dance.

Viene in mente una cosa dopo i pesci, il rap visto dai bianchi e i cambiamenti vissuti da dentro. Viene in mente la famosa storiella che Wallace raccontò quella volta ad Harvard. Quella del pesce anziano che incontra i due pesci giovani e chiede loro come è l’acqua. I due pesciolini, comprensibilmente, si guardano e si domandano cosa cazzo sia l’acqua.

Data:
Album:
Vince Staples - Big Fish Theory
Voto:
51star1star1star1star1star