Mogwai – Every Country’s Sun

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I Mogwai hanno venti anni di post rock sulle spalle e la responsabilità di essere una tra le band più influenti di un genere che rese famoso, prima di tutto, l’inventore di questa espressione, il giornalista musicale Simon Reynolds, che la adottò in un articolo comparso su Wire nel 1994 per definire lo stile di quei gruppi che a inizio anni Novanta prendevano il rock, lo dilatavano, lo contraevano, lo tiravano per i capelli. Sperimentali, si direbbe oggi.

Chitarra e batteria in primo piano, brani lunghi fino al limite della sopportazione, a volte. Cosa ne è del post rock oggi è difficile dirlo, gli stessi Mogwai rifiutarono questa etichetta già nel 2000: il termine inglobava troppi stili diversi e automaticamente si era svuotato di senso. Fu comunque una bella invenzione, quel termine, sopravvissuto fino a oggi per indicare qualcosa di più generico, un mood anche sentimentale. Descrivere un disco post rock ti obbliga a cercare un sacco di aggettivi che nella vita quotidiana non useresti mai. E non trovi mai gli aggettivi giusti quando cerchi di parlarne, ergo scrivere di post rock è praticamente un’impresa folle.

A dispetto del nome che fu appioppato a quello che suonavano, i Mogwai hanno fatto la storia di un genere senza preoccuparsi troppo della crisi del nome di genere. Quanto a noi ascoltatori, il termine post rock ci ha fatto comodo quando 17 anni fa dovevamo definire alcune atmosfere di Kid A o le lunghe sonate nordiche dei Sigur Rós. In mezzo, ovviamente, milioni di gruppetti che dalla band scozzese hanno preso a piene mani, più da loro che dai sofisticati Godspeed You! Black Emperor, i più fedeli alla linea, che hanno appena fatto uscire un nuovo singolo della durata di 7 minuti e 47 secondi – più di quanto duri mediamente una doccia e certe volte anche un pranzo in una mia giornata tipo. Per questo motivo io il post rock lo ascolto in quei momenti lì, mi dà sicurezza, so che farò in tempo a finire di fare quello che sto facendo prima che finisca il pezzo, sono più veloce io.

Uomo avvisato mezzo salvato: se vi mettete ad ascoltare Every Country’s Sun non potete non sapere cosa vi attende. Prodotto da David “DaveFridmann, il bassista dei primi Mercury Rev (sua la produzione di The Soft Bulletin dei Flaming Lips, per capirci), il nono capitolo della carriera dei Mogwai arriva dopo un periodo dedicato più alle colonne sonore che al concetto di disco: iniziato nel 2006 sotto la benedizione di Zinédine Zidane, nel quale compongono la soundtrack del film-documentario Zidane: A 21st Century Portrait dedicato al calciatore francese, e culminato con le musiche composte per la serie tv francese es Revenants (che consiglio vivamente).

L’uscita diHardcore Will Never Die, But You Will” nel 2011 per la Sub Pop poteva rappresentare per loro un apice pericoloso; dopo la curva, poteva esserci un declino. Ma i Mogwai hanno avuto la fortuna di tirare comunque dritti per la loro strada e riuscire a diventare dei classici del post rock. E a ogni genere, per quanto decaduto, serve il suo “classico”, ed è meglio che sia ancora vivo piuttosto che morto. Nel caso dei Mogwai il gruppo è vivo e vegeto e questo disco ne è la conferma: si viaggia attraverso un solco ben consolidato, ma con l’attitudine di volerlo tracciare ogni volta, senza stravolgere uno stile ormai inconfondibile e con un alto grado di ispirazione.

Data:
Album:
Mogwai - Every Country’s Sun
Voto:
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