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8 settembre 2017 | Megaforce Records | livingcolour.com |
Assieme a Faith No More, Fishbone e primissimi Red Hot Chili Peppers, i Living Colour sono stati il gruppo più chiacchierato della scena crossover degli anni Ottanta. In sostanza: padrini assoluti di quel connubio che vedeva fondere musica bianca (hard rock / heavy metal) con quella nera (funky, rap, soul, blues), prendendo ispirazione dalle istantanee di “Walk this way” (Run-DMC / Aerosmith) e “No sleep till Brooklyn” (Beastie Boys / Slayer). Con una differenza eccentrica rispetto a tutti altri: l’uso di una tecnica d’esecuzione precisa ed elegante, praticamente inarrivabile per i succitati ‘compagni’ di avventure.
Paradossale il fatto che sia potuta risultare sorprendentemente azzeccata tale corrispondenza: riuscire cioè a frullare sensibilità artistica ed innovazione creativa pur mantenendo alto il livello della messa in opera. Riuscire a trasmettere passione, creatività, innovazione pur perseguendo tale obiettivo sfruttando le loro inopinabili doti.
I Living Colour, per dirla franca, la spuntano sbancando alla grande: nel 1988 firmano per la Sony/Epic, pubblicando il milionario “Vivid” con Mick Jagger – canta e suona l’armonica in due brani –, che li vorrà in seguito come spalla per il tour di “Steel Wheels / Urban Jungle“, in tandem con Rolling Stones e Guns n’Roses; scalano la classifica di Billboard anche con il secondo “Time’s Up” (1990) e partecipano nel 1993 alla monumentale soundtrack “Judgement Night” – in pratica, un album che tutt’oggi rappresenta un abbecedario di informazioni preziosissime per lo sviluppo del nu-metal – interamente realizzata facendo suonare insieme gruppi di matrice hard alternative e hip hop, proponendo “Me, Myself & My Microphone” con i grandi Run DMC. Fino ad arrivare all’album della consacrazione artistica “Stain”, quello che avrebbe dovuto fatturare di più e che invece risultò un suicidio commerciale.
La storia dei Living Colour termina esattamente sul più bello, un anno dopo, per effetto di una decimazione perpetrata involontariamente dai Korn: una tagliola/asso piglia tutto che mandò al macero il crossover old school, almeno in termini di vendite discografiche. Per ritornare dieci anni dopo orfani della qualità creativa che li aveva da sempre caratterizzati.
Ed arriviamo così al nuovo “Shade” che pare voglia dimenticare gli ultimi 14 anni riportando i Living Colour al livello di prime-mover assoluti.
Le lancette del tempo si sono fermate. I Living Colour ripristinano lo spirito giovanile e scanzonato del debut “Vivid”, murandolo col suono metallizzato e maturo del grandioso monolite “Stain”. I nostri non si complicano la vita – l’assenza pressoché totale delle ‘progressioni sperimentali’ di “Time’s up” – sparando veloce ed alto mediante tredici pezzi pieni di forza, energia: un vero tripudio ritmico, d’ironia e umiltà.
È l’hard blues hendrixiano che si mescola al funkadelismo a farla da padrona in tutto “Shade”, con un Vernon Reid in stato di grazia – tra i più grandi chitarristi rock ‘virtuosi’ dopo Eddie Van Halen. L’ormai collaudata sezione ritmica è un uragano di sincopi tribali e percussioni strepitose: Doug Wimbish martella il basso a colpi di slap, su cui Will Calhoun ricama le percussioni. Domina la voce possente di Corey Glover, un’ugola inarrivabile.
In “Come on”, ad esempio, il wah-wah di Reid è un mantra psichedelico che viene triturato da un break-hop-electro; il singolo “Program” ci catapulta agli anni d’oro del gruppo, quando sfornava leccornie pop rivestite di caramello sonoro; mentre è la componente rap che emerge in “Who shot ya”. Nella frenetica “Pattern in time” tributano i loro mentori post-core Bad Brains, mentre nell’accattivante soul-blues di “Who’s that” ci riportano ai tempi in cui Fishbone e RHCP usavano la Bibbia George Clinton per predicare al mondo un sorriso. Il culmine arriva però con “Prechin’ blues”, dove il blues di Reid avanza sinistro e lento su un tappeto armonico, in attesa dell’esplosione finale.
I Living Colour come testimonial di una decade persa nel tempo? A giudicare dai fatti, con i Fishbone ormai dispersi, i The Red Hot Chili Peppers sprofondati nelle banalità del pop da classifica, ed Faith No More ancora un pò indecisi sul da farsi, sembrerebbe di si.