Eric Clapton – Me and Mr. Johnson

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Al momento in cui scrivo questa recensione posseggo e ascolto questo cd da oltre un mese, nel frattempo ho letto centinaia e centinaia di commenti su di esso, scritti sia da semplici appassionati che da firme importanti. Voglio essere onesto: di stupidaggini ne ho lette a iosa per cui vediamo di aggiungere anche le mie alla lista. “Me And Mr. Johnson” è il cd con cui Clapton dichiara il suo amore verso Robert Johnson interpretando 14 dei 29 blues scritti dal bluesman del Mississippi. Innanzi tutto l’album è suonato molto bene, Eric con la chitarra ci sa fare, e questo non è certo un mistero, e i musicisti che si è scelto come band sono tutti di primissimo piano. Jerry Portnoy all’armonica non ha certo bisogno di presentazioni, chiunque mastichi un pochino di blues sa bene chi è e cosa ha fatto. Al piano siede Billy Preston che oltre ad aver registrato un sacco di ottimi dischi come solista vanta collaborazioni prestigiose come quella con Keith Richards, al basso c’è Nathan Eat, dietro le pelli siede Steve Gadd, mentre la slide è affidata a Dolye Bramhall II. Tutta gente di grande valore. Mano lenta è abbastanza ispirato anche come cantante, anzi direi che da questo punto di vista “Me And Mr. Johnson” è una delle sue prove migliori da molto, molto tempo. Dal punto di vista della scelta delle canzoni Clapton ha voluto includere solo brani che non aveva mai inciso prima, egli ha già suonato diverse canzoni di Robert Johnson in passato e addirittura ha intitolato “Crossraods” il box retrospettivo uscito qualche tempo fa. Tutto bene allora? Purtroppo no. La prima volta che ho ascoltato l’album ho avuto un’ottima impressione; Questo possiamo considerarlo come il secondo album blues di Clapton in circa 40 anni di carriera. Si perché nonostante mano lenta sia sempre stato additato come bluesman, il nostro il suo primo album totalmente blues lo ha inciso solo nel 1994 (From The Cradle) per il resto egli ha solo messo qualche spruzzata di blues qua e là (oltre alle collaborazioni con Mayall si intende), fino a “Riding With The King” il disco realizzato a 4 mani con BB King nel 2000. Ma sto divagando, dicevo che alla prima impressione il lavoro mi è piaciuto molto, poi l’ho riascoltato e mi è piaciuto un po’ meno, poi ancora meno e ancora meno ancora, fino al punto in cui facevo davvero fatica a sentirlo tutto in una volta sola. Il problema, a mio avviso, sta proprio qui: questo disco non dura, la sua longevità è davvero troppo breve e lo si dimentica in un baleno. Il motivo è sempre il solito: il blues è musica che va prima sentita che suonata e il buon Eric Clapton il blues non ce l’ha dentro. Se la cosa può anche essere mascherata quando il nostro esegue brani suoi o canzoni della tradizione elettrica di Chicago, questo non può essere coperto quando egli si confronta con il massimo esponente del tormento esistenziale che da sempre accompagna il bluesman. Robert Johnson è stato preso ad esempio da tutti, tantissimi, anche tra i giovani, lo citano come loro primaria fonte di ispirazione ma la sua musica non è certo materia per tutti. Se si vuole suonare le sue canzoni bisogna innanzi tutto comprendere cosa c’era alla base dei suoi 29 blues. Johnson era un uomo irrequieto, amante di una vita al limite ma anche , e soprattutto, una persona con una enorme tormento interno. La bellezza e l’unicità del suo stile stavano proprio nel modo “totale” in cui egli viveva i suoi blues prima ancora di suonarli e cantarli. La sua voce acuta entra direttamente nell’anima dell’ascoltatore e provoca una strana sensazione mista di malinconia, stupore e disagio. Molti pensano che Robert sia stato un virtuoso della chitarra ma invece di lui si consoce un solo ed unico assolo, la sua importanza va ricercata nello stile innovativo e nella forza espressiva della sua musica e dei suoi testi. Questo è un discorso lungo che meriterebbe molto più spazio delle poche righe qui disponibili, ma vale la pena farlo perché solo così si può capire che un borghese come Clapton che ha sempre avuto un occhio di riguardo alle classifiche di vendita non può nemmeno lontanamente avvicinarsi al blues di Robert Johnson. Può certamente suonarlo bene, come in questo caso, ma alla fine il trucco dura poco. Nessuna di queste 14 canzoni è in grado di colpire al cuore l’ascoltatore, e se il blues non sa fare questo allora diventa quasi inascoltabile fino ad arrivare al fastidio. Cosa che succede puntualmente con questo album. Il mio è naturalmente un discorso fatto da una persona che ama il blues, magari ad un neofita o ad un ascoltatore meno pretenzioso questo cd piacerà molto perché, lo ripeto ancora, è suonato bene ed inoltre strizza abbastanza sfacciatamente l’occhio alla orecchiabilità; colpa di una produzione abbastanza all’acqua di rose dove la slide invece di ricordare un lamento sembra più un soffio di vento, dove il piano ( lo strumento più in primo piano del disco) non sorregge il canto ma da solo il ritmo, molto gradevole, e dove la voce è accuratamente dosata in modo da non risultare mai “fastidiosa” e “inquietante” ma sempre molto ascoltabile. Anche l’armonica di quel gigante di Portnoy non graffia mai a dovere ma fa solo un banale accompagnamento che da la forte impressione di essere messo li solo per dare una certa aria vintage. Onestamente mi trovo a disagio a commentare queste canzoni, tutte abbastanza simili, perché nessuna, o quasi, di esse mi ha particolarmente colpito sia in positivo che in negativo, passano via lisce come l’olio e non lasciano traccia di sé nemmeno per un secondo. Vediamo comunque più nel dettaglio qualcuna di queste 14 canzoni. “Little Queen of Spades” è secondo me arricchita troppo dal suono insistente dell’hammond mentre l’armonica è lasciata troppo bassa, il tutto si risolve in un lungo slow che alla fine stanca.” They’re Red Hot” è invece trasformata in uno swing altamente ritmato che davvero stona con lo spirito originale del brano di Johnson. Canzoncina all’acqua di rose quasi irritante.” Me and the Devil Blues” è uno dei brani simbolo del più dannato dei bluesman, Clapton la interpreta abbastanza bene anche se una grossa mano gliela da Jerry Portnoy visto che la sua armonica regge da sola, o quasi, tutto il peso ritmico del pezzo. “Traveling Riverside Blues” mette in evidenza una slide elettrica alla Elmore James e la solita buona prova di Portnoy, anche Eric canta in modo convinto e il brano risulta essere uno dei migliori del lotto. “Last Fair Deal Gone Down” non è ne carne ne pesce, buona prova alla voce di mano lenta ma arrangiamento decisamente senza senso con un piano troppo insistente e una slide elettrica che compare qua e là risultando abbastanza fuori posto. “Milkcow’s Calf Blues” presenta ancora la slide quasi distorta accompagnata dalle tastiere ( ma perché non continuare con il piano?) e nella parte finale uno strano intreccio tra l’armonica, sempre troppo bassa, e la slide che finisce con l’oscurare entrambe. Tra le cose più brutte segnalo “Hell Hound on My Trail” che invece nella sua versione originale è uno dei pezzi migliori in assoluto di Johnson. Questa versione è davvero brutta, Clapton canta male, la parte strumentale è confusionaria con i soliti difetti di produzione con strumenti che si oscurano a vicenda creando un grosso pastrocchio sonoro. “32-20” blues è rifatta in stile Chicago ma non convince, a me onestamente questo abuso del piano in tutto il disco è risultato davvero fastidioso. Chiudiamo con “Love in Vain” che si attesta nella normalità anche se proprio in questa canzone più che in altre si capisce bene come a Clapton manchi proprio la materia prima per suonare questo genere di canzoni, se vi va fate un confronto tra questa versione e quella degli Stones presente su “Let it Bleed” e capirete bene quello che voglio dire. Mick e Keith la suonavano con il diavolo in corpo con, la voce che faceva tremare i polsi e la chitarra che tagliava come un rasoio , avevano, ma dal vivo almeno ce l’hanno ancora, una furia emotiva che Eric non ha mai posseduto, infatti questa sua versione risulta solo piacevole nulla di più nulla di meno
Chiudiamo qui, “Me and Mr. Johnson” è una bella idea che ha senza dubbio il grosso, e non trascurabile, merito di far conoscere a molti la musica di Robert Johnson grazie alla fama mondiale di Clapton ma non sa scavare a fondo nell’opera del grande bluesman. E’ un disco banale, senza colpi di coda, prodotto in modo approssimativo. Il blues non è musica radio freindly non c’è nulla da fare, cercare di annacquarlo per renderlo vendibile vuol dire ucciderne l’essenza. Questo album potrà piacere a qualcuno ma non di certo a chi ama il vero blues.