The Black Keys – Rubber Factory

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Nel 2003 i The Black Keys si imposero all’attenzione del “grande” pubblico con “Thickfreakness”, disco di indubbio spessore che faceva seguito a “The Big Come Up”. Anche noi di RockLab recensimmo con grande entusiasmo questo lavoro, in particolare il sottoscritto, autore della recensione, spese parole importanti per il duo proveniente da Akron. Ora con questo “Rubber Factory” i nostri sono chiamati a confermare tutto quel che di buono i precedenti album avevano mostrato e, se possibile, a limare i rimanenti difettucci. Impresa riuscita? Sì, ma con qualche piccolo appunto. Non fraintendetemi: “Rubber Factory” è senza dubbio un bel disco con alcune song davvero notevoli. Dal punto di vista della produzione i nostri hanno certamente fatto dei passi avanti così come da quello del songwriting, aggiungendo varietà di suoni e di stili. Per fare questo Dan e Patrick si sono orientati verso un rock blues dalla forte matrice hendrixiana. Resta comunque impresso a fuoco il marchio di casa Fat Possum, infatti tra le altre si sente molto l’influenza degli artisti di casa come RL Burnside e Cedell Davis. Tutto ok allora? Sì se ci limitiamo alla mera analisi dei brani. Quello che mi lascia dubbioso è una certa propensione a ripetersi e la scarsa duttilità vocale di Dan. Fare un disco con solo voce, chitarra e batteria non è certamente cosa facile, due soli strumenti alla fine esauriscono le loro risorse . Per questa volta va bene ancora così perché ripeto “Rubber Factory” è un bel disco, tosto potente e arrabbiato, ma per il futuro? Fossi stato in loro avrei cominciato a sperimentare qualcosa di alternativo fin da subito, magari provando più a fondo qualche brano acustico come “The Lengts” dove si intravedono grande potenzialità per il futuro, ma evidentemente si è preferito andare sul sicuro. Dopo questa lunga parte introduttiva vediamo ora di scoprire assieme le 13 song che riempiono questo dischetto: si parte con “When The Lights Go Out”; brano dall’andamento ipnotico, forse un pochino scontato ma certamente efficace. Molto meglio la successiva “10 A.M. Automatic” un “rockaccio” cattivo e tirato come si deve. “Just Couldn’t Tie Me Down” inizia con la sola chitarra che intona un irresistibile rif rockblues poi entra la batteria e la song prende decisamente il volo sparando adrenalina a mille. Grande brano senza dubbio, su questo genere di canzoni i nostri hanno davvero pochi rivali tra i tanti gruppi del cosiddetto rock alternativo made in USA. Più o meno dello stesso stampo è la successiva “All Hands Against His Own” con l’aggiunta di un favoloso assolo di chitarra super distorto. “The Desperate Man” mette in mostra una voce filtrata con la batteria in primo piano. “Girl Is On My Mind” ritorna su strade decisamente più consone ai nostri riproponendo un bel rock blues fortemente psichedelico. Forse il vero limite di questo album sta proprio nel fatto che certi brani, pur belli, tendono ad assomigliarsi tra loro. E’ il prezzo da pagare se si sceglie la (dura) strada del duo. Comunque sia la parte centrale del brano è molto bella, con un favoloso stop and and go anticipato da un terrificante assolo di chitarra. Arriviamo ora alla già citata “The Lenghts” ballata semiacustica molto gradevole. Nulla di eclatante ma fa intravedere interessanti sviluppi futuri per i nostri. “Grown So Ugly” è senza dubbio uno dei brani migliori del lotto, ripartente continue, la batteria che sembra voler spaccare le casse dello stereo e quella sana rabbia che non deve mai mancare quando si suona questa musica. “Stack Shot Billy” riprende un tema di base abbastanza abusato e francamente non mi convince molto. “Act Nice and Gentle” invece è davvero gradevole, il tiro si sposta più territori, country oriented (sempre visti nella logica dei nostri) con grande spazio alla melodia decisamente old fashioned. “Aeroplane Blues” invece è una vera mazzata nello stomaco : chitarra distortissima e un certo eco di Doors nella voce. “Keep Me” è un brano decisamente blues oriented e scorre via che è un piacere. Si chiude con “Till I Get My Way” song dalla forte atmosfera ipnotica ma abbastanza veloce, cosa questa che è uno dei tratti peculiari dei nostri. In sostanza possiamo tranquillamente dire che “Rubber Factory” è senza dubbio un buon disco e se avrete apprezzato i lavori precedenti dei nostri non resterete certamente delusi. Ho dei dubbi sul futuro dei nostri perché un quarto disco sempre su queste coordinate sarebbe a mio avviso decisamente pericoloso ma per ora bene così. D’altronde tra loro e i “White Stripes” c’è un abisso, anche se questi ultimi vendono mille volte di più.