Marlene Kuntz – Bianco Sporco

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È sempre difficile parlare di un disco dei Marlene senza dire le solite cose. Ancora di più lo è questa volta, arrivati alla tappa numero sei (esclusi gli Ep). Cominciamo allora a dire cosa non è “Bianco sporco”: non è un disco che si svolge sull’asse sensualità-sessualità come “Il vile” o “Senza peso”. Non è adatto a chi giudica i componenti del gruppo di Fossano come i soliti noiosi artistoidi in preda ad una depressione post-adolescenziale, né farà cambiare opinione su di loro e sulla loro poetica. Non è composto da canzoni caratterizzate da chitarre noise tipo “Festa mesta” o “Sonica”. Non presenta “spore”. Non è stato influenzato dall’uscita dal gruppo di Dan Solo e/o dalla collaborazione con Maroccolo e Rob Ellis. E allora cosa c’è dentro questi 52 minuti? Insoddisfazione, stanchezza, rottura delle illusioni, una sorta di percorso che infine porta ad una sempre più chiara “Cognizione del dolore”, non a caso brano che prende ispirazione dall’omonimo romanzo di Carlo Emilio Gadda. La partenza è di per se esplicativa, subito con i primi due brani si viene spinti in questo panorama desolato: “Ma quale gusto se sto perdendo fiducia e stimoli? Sai è proprio angusto il nostro mondo affollato di equivoci” (“Mondo cattivo”), “Lascia stare, non mi chiedere più niente, fallo per favore, hai succhiato sufficientemente energia: ora vattene via” (“A chi succhia”), e tutto detto non con rabbia, ma con la rassegnazione di chi rimane senza forze. Se la qualità è sempre stata una caratteristica del gruppo, qui si viaggia ad altissimi livelli ed è proprio il primo singolo “Bellezza”, documento programmatico dello stile di vita marleniano, a dimostrare tutto ciò che si può incontrare in questo disco, che musicalmente è raffinatissimo e compatto nella definizione delle atmosfere, le cui sorprendenti capacità compositive sono esplicitate da riff trasformati in trame di seta perfettamente coese con le liriche, basti pensare ai ritratti del personaggio de “Il solitario” e quello del Don Chisciotte di “Amen”. Ma il punto più alto si raggiunge con “La lira di Narciso”, sogno e simbolo di un lavoro talmente personale da far star male, perché dentro quelle undici tracce in realtà ci sono io.