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Il 6 dicembre è stata una data particolarmente significativa per milioni di fans dei Korn sparsi in tutto il mondo, esce infatti See You On The Other Side, settimo lavoro della band che più di tutte le altre ha rivoluzionato l’idea della musica heavy dell’ultimo decennio.
Ma facciamo un piccolo passo indietro.
Molte novità in casa Korn per questo (ormai sgocciolante) 2005: innanzi tutto il nuovo contratto discografico con la Emi, dopo dieci anni di onorata carriera sotto l’egida della Epic/Sony Music, e poi la novità più grossa: la realizzazione di un nuovo album dopo la defezione di colui che è stato uno dei ‘padri fondatori’ della band: lo spiritato chitarrista Brian “Head” Welch.
Se il nuovo contratto discografico si è concretizzato effettivamente (per noi fans) in un’edizione deluxe della nuova fatica di Jonathan Davis & co., e in condizioni più vantaggiose a livello contrattuale (per la band), ben più pesante e ricca di conseguenze è stata invece la defezione di Head e la conseguente modifica della line up.
Non si tratta di defezioni momentanee a quanto pare, perchè Brian “Head” Welch, che ci crediate o no, ha trovato il conforto della spiritualità abbracciando con fervore la religione cristiana e rinnegando totalmente la sua precedente militanza nella ‘blasfema’ band di Bakersfield. E’ presente anche un blog da lui stesso gestito, all’indirizzo www.headtochrist.com, dal quale è possibile farsi un’idea delle tensioni spirituali che hanno animato la sofferta scelta di Head di distaccarsi (anche in senso umano) dalla band. E lo dico senza ironia di sorta.
Chiarisce forse meglio la situazione Jonathan Davis, che in una serie di recenti interviste ha voluto mettere in luce quanto umanamente l’abbandono di Head abbia pesato nei cuori dei compagni di viaggio (he was the comedian of the band, così lo descrive durante una conferenza stampa con una punta di malinconia negli occhi), ma anche quanto fosse diventato pesante, quasi insostenibile, lavorare con una persona costantemente ubriaca e ormai prosciugata dal punto di vista creativo: “senza di lui suoniamo molto meglio che in passato. Mi manca Head come persona, non certo come musicista. Da molto tempo non contribuiva allo sviluppo stilistico dei Korn: era spesso ubriaco, depresso, privo di stimoli. E’ capitato addirittura che sul palco non sapesse nemmeno quale canzone stessimo suonando. Senza di lui tutto è diventato estremamente più facile…”. Insomma la crisi era già nell’aria.
Ora la domanda che tutti si staranno ponendo è se in effetti la perdita di Head alle chitarre abbia avuto delle ripercussioni stilistiche all’interno del nuovo lavoro dei Korn. La risposta è sì.
L’immagine che abbiamo oggi dei Korn è di una band effettivamente liberata da un peso, dotata ancora di una fortissima tensione espressiva e di voglia di sperimentare, che ha colto l’occasione della perdita di un chitarrista per sbrigliare il proprio spirito creativo, illuminando delle sfaccettature che erano solo state sfiorate nei lavori precedenti.
Il tutto cercando di mantenere il contatto con lo ‘stile Korn’, compiendo un’innovazione, ma all’interno del solco della loro premiata tradizione.
Bisogna subito dire che l’operazione è riuscita solo a metà.
I Korn hanno deciso di rimanere un quartetto, e a Munky, il secondo chitarrista, va l’arduo compito di raccogliere l’eredità dell’amico di infanzia nonché co-fondatore del primo nucleo originario della band. Sobbarcandosi il ‘doppio lavoro’ di registrare tutte le chitarre, inevitabilmente Munky conferisce al sound un’impronta stilistica sua propria, che si concreta in particolare in un maggior minimalismo dei riff e in generale in un minor peso delle chitarre nell’economia del disco.
Ma è dietro ai controlli che si nascondono le novità maggiori.
Innanzi tutto una graditissima sorpresa ai mixer, dove compare per la prima volta nella storia dei Korn Terry Date, produttore del pesantissimo sound dei deftones.
Dall’altra parte, alla produzione, coadiuvano l’ormai consueta regia di Jonathan Davis due anime profondamente diverse: il collettivo The Matrix, responsabile dei suoni –e non solo- di personaggi quali Hillary Duff o Avril Lavigne(!!), e l’industrial electronic programmer Atticus Ross, noto per la sua recente collaborazione con Trent Reznor in occasione dell’ultimo lavoro dei NIN e per il progetto industrial Tapeworm.
Sono questi gli ingredienti che improntano il sound di quelli che già da molte parti vengono definiti “i nuovi Korn”.
-L’impressione che si ricava dal primo ascolto del singolo è di un suono in parte più vuoto dal punto di vista strumentale e ‘analogico’ e più pieno dal punto di vista dell’ effettistica e della componente elettronica. Il sound è comunque stellare e il pezzo pompa che è un piacere, felicissima variazione melodica nel corpo del brano (Hey you, hey you, this won’t hurt a bit Says who? Says who? Anesthetize this bitch Anesthetize this bitch, anesthetize!) e impatto garantito.
Stesso tipo di sonorità e impressioni per le due tracce seguenti (Politics e Hypocrites) forse penalizzate da un songwriting meno potente e catchy rispetto al singolo.
Appare subito chiaro che l’idea di compattezza che si ricavava dall’ascolto di tutti i precedenti lavori dei Korn, e che costituiva un po’ il marchio di fabbrica dei loro dischi, appare qui invece spezzata da una certa varietà stilistica, che devo ammettere è effettivamente, per chi conosce bene la band, un po’ spiazzante.
Molto interessante Souvenir, dove si coglie ancora un incedere pesantissimo e marziale che finalmente ti fa sentire un po’ più a casa.
10 or a 2-Way sembra uscito dal carnet di Marilyn Manson, ed è questo il risultato più ovvio e immediato della produzione affidata a Atticus Ross. Non che il brano sia brutto, anzi, ma non sono proprio i Korn che conosciamo. E le cornamuse incollate nel finale-interludio non bastano a farci felici, anzi, risultano un tantino decontestualizzate.
Throw me away appartiene al filone dei brani più gothicheggianti di Jonathan Davis, vedi gli episodi più ispirati e oscuri di Untouchables. Il brano è davvero interessante e cupo al punto giusto, ma forse nel ritornello un po’ più di potenza di fuoco avrebbe giovato.
Love Song è forse, di questo tipo di brani più vicini all’ispirazione di Untouchables, il più focalizzato, poichè riesce a coadiuvare potenza ed oscurità. Una coda old school su cui JD canta Don’t bring me dafadils / Bring a boquet of pills non fa che impreziosire un brano già di per se vincente, e prelude ad un inciso decisamente goth metal, tanto riuscito quanto assolutamente inusuale per i Korn. Segue una ripresa dell’efficace ritornello che va a chiudere con classe uno dei brani migliori e più preziosi del disco, spettacolo!
Open Up: ma è Trent Reznor o sono i Korn? Riemerge nella strofa un pallido ricordo del basso pastoso elastico e slappato a cui siamo abituati, ma è sommerso nei suoni e non è libero di esprimersi. Il pezzo non decolla, nonostante la melodia accattivante. Poi, proprio nel mezzo, il brano si apre, sfoderando un inciso epico, e il vocalizzo di Davis sopra un tappeto di viole (elettroniche) e di chitarre lontane è da brividi, ma con un retrogusto pop (clap your hands!) quantomeno curioso. Chiude un arpeggio assolutamente dolce e melodico, che rinnova i brividi, ma fa pensare più al pasticcio dei generi che ad un brano ben congeniato ed organico. E l’interludio che segue, con un collage del leggendario scat vocale di Davis filtrato attraverso un computer, non fa che rafforzare questa impressione.
Coming Undone: finalmente arriva un po’ di potenza! Il suono è ‘ignorante’ al punto giusto, ma comunque molto filtrato e industriale. Il beat ricorda a tratti We Will Rock You dei Queen (!!) e il brano scorre placido e godibile pompando bene sui bassi. Anche le chitarre sono più presenti. Niente male.
Getting Off: continua a pompare e se possibile ancora di più, finalmente si mangia, e sì, anche Fieldy, al basso, c’è.
Liar: ha la caratura del singolo, perfettamente alla Korn, e si scapoccia. E c’è anche lo scat di Twist montato sull’inciso (un regalino ai fans, sarà gradito?)! Ricompare in fin di traccia il solito (fastidioso) interludio con cornamusa incollata e decontestualizzata, che sebbene non riesca a rovinare il brano lascia un po’ di amaro in bocca.
L’attenzione è focalizzata su For No One, brano che Jonathan Davis dice essere ispirato alla sua ‘teenage anger’ e che deve ricoprire il ruolo di anthem sullo stile A.d.i.d.a.s. o del più recente Ya’ll Want a Single. E ci riuscirà, probabilmente, anche se devo ammettere che non vanta il songwriting felice e riuscito dei suoi predecessori.
Seen it all trascorre senza destare grande attenzione fino all’inciso in cui Jonathan Davis sfodera un cantato melodrammatico che ricorda, ma in maniera molto meno audace, una perla forse poco conosciuta contenuta in Life is Peachy: Kill You.
Ora Tearjerker, riprende la tradizione di Kill You, ma questa volta fa davvero rizzare le antenne ai fan del gothic. La superba interpretazione vocale di Davis merita davvero un plauso, dalla freddezza del tappeto elettronico dei suoni si erge gelida dolce e sofferente. Bellissima. Il brano è una ballata rarefatta di sapore gothic metal o doom e la malinconia glaciale è accentuata da un tappeto di suoni freddissimo sul quale Davis canta alcuni dei sui versi più ispirati (And I wish there was something / Please tell me there’s something better /And I wish there was something more than this / Saturated loneliness) in maniera perfettamente centrata e sincera. Un brano che non avrebbe sfigurato in un disco dei This Mortal Coil.
Vi siete mai persi da qualche parte quando eravate piccoli? Ecco, è questa la prima impressione che ho avuto dall’ascolto di questo disco, si riconoscono i posti, sono familiari, ma tuttavia non abbastanza da trovare la via di casa, le facce sono già viste, ma non proprio quelle, e si sente un senso di smarrimento e di sconforto.
Ad un ascolto più attento il nuovo album dei Korn si rivela un disco inaspettatamente divertente, carico di ottime premesse, di buone idee e di interessanti spunti innovativi, ma sparsi qua e là all’interno di un lavoro stilisticamente poco focalizzato e centrato, rovinato in parte da una produzione eccessivamente presente e, a tratti, invadente.
E’ forse proprio la produzione la croce e delizia di See You On The Other Side: il sound appare estremamente curato, ma finisce per risultare fin troppo ‘prodotto’ e caratterizzato da un appeal plastificato che stuzzica l’appetito, ma lascia la fame di suono analogico e di potenza pura.
Un album tuttavia carico di notevoli spunti per il futuro, per una band che sembra ben lontana dal voler dare forfait.